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sabato 7 febbraio 2015

Il neoliberismo en passant

Un breve estratto orientativo che può essere utile nel mare magnum del vociare mediatico.
Veramente consigliata la lettura del testo in nota.

I risultati del neoliberismo

"(...) può essere utile passare in rassegna, dal punto di vista storico-geografico, i risultati ottenuti dalla neoliberalizzazione (...). (negli anni ottanta e novanta) i tassi di crescita globale aggregata mostrano che la neoliberalizzazione non è sostanzialmente riuscita a stimolare la crescita globale[1]...

(...) quasi tutti gli indicatori globali che riguardano livelli di salute, aspettativa di vita, mortalità infantile e così via (...) mostrano, quanto a benessere, regressi e non conquiste[2].

(...) gli unici successi che la neoliberalizzazione può sistematicamente rivendicare sono quelli che riguardano la riduzione e il controllo dell'inflazione[3].

(...) Se la consapevolezza di questi fatti fosse più diffusa, l'esaltazione del neoliberismo e della sua specifica forma di globalizzazione dovrebbe smorzarne i toni. Perché, allora, ci sono così tante persone persuase che la neoliberalizzazione attraverso la globalizzazione sia "l'unica alternativa" e perchè ha avuto tanto successo? 
Due ragioni emergono in primo piano. In primo luogo la volatilità dell'irregolare sviluppo geografico si è intensificata, permettendo a determinati territori di progredire in modo spettacolare (almeno per un certo tempo) a spese di altri. Se, per esempio, gli anni ottanta sono appartenuti soprattutto al Giappone, alle "tigri asiatiche" e alla Germania occidentale, e se gli anni novanta sono appartenuti a Regno Unito e Stati Uniti, allora il fatto che il "successo" atteso da qualche parte ci fosse ha oscurato il fatto che la neoliberalizzazione in genere non stava affatto stimolando la crescita o accrescendo il benessere. In secondo luogo, la neoliberalizzazione, in quanto processo effettivo più che come teoria, ha rappresentato un successo enorme dal punto di vista delle classi più alte: ha ripristinato il potere dei ceti dominanti (come è accaduto negli USA e in una certa misura in Inghilterra) oppure ha creato le condizioni per la formazione di una classe capitalista (come in Cina, India, Russia e altrove).
Poichè i media sono dominati dagli interessi delle classi più alte, si è potuto propagare il mito secondo il quale gli stati fallivano economicamente perché non erano competitivi (creando di conseguenza la richiesta di ulteriori riforme neoliberiste). Si è voluto sostenere che una crescente disuguaglianza sociale all'interno di un territorio era condizione necessaria per incoraggiare quel rischio imprenditoriale e quell'innovazione che potevano accrescere la forza competitiva e stimolare la crescita. Se tra gli esponenti delle classi più basse le condizioni di vita si deterioravano, era perché non riuscivano, in genere per ragioni personali e culturali, a potenziare il proprio capitale umano (tramite l'istruzione, l'acquisizione di un'etica protestante del lavoro, e così via). Certi problemi nascevano, in breve, a causa della mancanza di forza competitiva o per via di carenze personali, culturali e politiche. In un mondo di darwinismo neoliberista, si diceva, solo i più adatti avrebbero potuto e dovuto sopravvivere[4]".





Ricorda qualcosa? 

                                                                                                   V. C. 



[1] D. Harvey, Breve storia del neoliberismo, il Saggiatore 2007, pag. 176.
[2] D. Harvey, Breve storia del neoliberismo, il Saggiatore 2007, pag. 178.
[3] D. Harvey, Breve storia del neoliberismo, il Saggiatore 2007, pag. 178.
[4] D. Harvey, Breve storia del neoliberismo, il Saggiatore 2007, pag. 179.






venerdì 21 novembre 2014

Il Paese del formalismo militante

“L’Italia è il Paese che amo”. Sembra assurdo, ma qualcuno ha costruito una carriera politica partendo da queste facili parole. Non so se è capitato a tutti di amare, a me sì: posso garantire che quando si ama, la vita quotidiana è sospinta da una forza incredibile. Cosa c’entra tutto questo con il titolo?

Il nesso è facile. La vita quotidiana di un giovane laureato in Giurisprudenza è costruita interamente sull’amore, cioè su una forza invisibile che lo incoraggia ad andare avanti. In Italia infatti non ha nessun senso pratico, finalizzato all’inserimento professionale, frequentare alcun corso o percorso formativo post lauream. L’unico senso che ha è il formalissimo puro e semplice rilascio di un titolo. Non si impara davvero niente di utile da spendere nell’immaginario e ormai mitico “mondo del lavoro”.
Ammesso che esista, il mondo del lavoro è ad anni luce di distanza dal “pianeta gavetta”, anch’esso, come una più nota Isola, situato immediatamente dopo la “seconda a destra, poi dritto fino al mattino”: non c’è!

È il momento di cambiare. L’Italia tiene al palo della formazione migliaia di talenti, che nascosti sotto il materasso per un decennio non renderanno di più, anzi, renderanno sempre meno. Ecco le riforme da fare: eliminare odiosi percorsi a ostacoli (scuole di specializzazione, tirocini, praticantati) e rendere accessibile il lavoro subito; includere la pratica obbligatoria all’Università; di conseguenza eliminare gli esami di Stato. Altro che “Atto Lavori” (Jobs Act).
Tutto questo si collega con una visione politica della società, per certi versi intrinseca alla storia dell’Occidente. Alla base di tutto c’è una concezione diversa dello “stato di natura”, della situazione in cui versano gli Uomini prima di costruire uno Stato giuridico. Se è presupposto uno stato di natura in cui gli uomini sono “lupi” (S. Agostino, Hobbes) gli uni degli altri, è necessario uno Stato giuridico che autoritativamente dica cosa fare, selezioni, agisca (tramite gli ordini professionali) per legalizzare la lotta omicida, trasformandola in ordinata e legittima prevaricazione del più forte (in termini di titoli). L’altra concezione di stato di natura è diametralmente opposta (S. Tommaso, Locke): qui si presuppone che agli esseri umani piace interagire per il bene di ciascuno, ed entrando in contatto, “convengano” (covenant) uno Stato giuridico per prosperare tutti.

Si potrebbe dunque affermare che una certa visione possa essere chiamata di destra, e l’altra, di sinistra. Nota: entrambe queste tensioni possono coesistere in un raccoglitore politico, ovunque esso sia collocato nella destra e nella sinistra parlamentarie. Le nostre categorie sono tensioni filosofiche intrinseche all’uomo politico e al legislatore. Secondo me, la prima ha caratterizzato la passata evoluzione (dagli anni ’20 del secolo scorso ad oggi) delle “LIBERE” (!?) professioni in Italia. È forse il momento che la seconda impostazione prevalga; e che gli ordini professionali restino enti di garanzia e tutela: nulla più.

                                                                                                              P. B. 

mercoledì 26 marzo 2014

Visione, sogno, politica

Quante volte udiamo la parola “sogno” nel dibattito politico odierno? Tante. “Sogniamo un’Italia così…”, “dobbiamo credere in questo sogno…”, “il sogno di un’Italia nuova…”, “il sogno dei giovani per l’Italia, per l’Europa…”, “non bisogna distruggere questo grande sogno…”, eccetera, eccetera, eccetera.

Rinsaviti dalla sbornia da logorrea politicante, la domanda sorge spontanea: è giusto, è adeguato utilizzare tale termine nel linguaggio politico? O non è forse errato dal punto di vista sostanziale e, agli estremi, fuorviante? Effettivamente, ciò potrebbe risultare vero. Perché in realtà, il grande assente non solo nell’ambito del linguaggio ma specialmente dal punto di vista fattuale, risulta essere il termine “visione”. Nella politica conta di più il sogno o la visione? Ma soprattutto, non sono tutto sommato la stessa cosa? Di fondo, no. Andiamo con ordine, aggiungendo come terzo “comodo” il termine “idea” e il suo significato, il concetto insito nella sua forma verbale.

“Visione”[1] viene dal latino videre e, di base, vuol dire “vedere”. Tralasciando il significato più trascendente, cioè quello di “scena, immagine straordinaria che si vede o si crede di aver visto in stato di estasi o per cause soprannaturali”, è già molto chiaro il significato propriamente fisiologico: “(la visione) è il processo di percezione degli stimoli luminosi, la capacità di vedere”. Partendo da ciò ed estendendo questo significato all’ambito più generale, la visione è, molto semplicemente, “l’azione, il fatto di vedere una cosa per esaminarla, trarne notizie utili”. Dilatando temporalmente questo processo, questa azione, la visione diviene in sintesi “un modo di vedere, un concetto, un’idea personale – dilato anche io e aggiungo: politica – che si ha in merito a qualcosa”. Il procedimento sembra dunque molto semplice: la luce illumina il bicchiere. Percepisco questo stimolo luminoso e dunque sono capace di vedere quell’oggetto. Ciò mi rende possibile esaminarlo e vedo che è una struttura poco alta e cava dentro. Da ciò avrò il concetto o l’idea che qualsiasi altro oggetto simile sarà quello che definisco “bicchiere”.

“Sogno”[2] proviene invece dal latino sŏmnium, a sua volta derivante da somnus, cioè “sonno”. Già qui vorrei sottolineare la differenza tra videre e somnus: l’essere svegli; tanto è vero che si dice “ho fatto un sogno” e non “ho visto un sogno”. Atteniamoci ai due significati più importanti e generali: “in senso ampio, ogni attività mentale, anche frammentaria, che si svolge durante il sonno; in senso più stretto e più comune, l’attività (mentale) più o meno nitida e dettagliata, con una struttura narrativa più o meno coerente; immaginazione vana, fantastica, di cose irrealizzabili”. Anche in questo caso il procedimento è semplice: durante il sonno sogno un essere alato sputa fuoco con zampe di cavallo e testa di leone che mi insegue e vuole uccidermi; io lo sconfiggo con una balestra con dardi-laser. Per me dormiente, tutto molto realistico.

Forse si sarà già inteso qual è lo spartiacque tra i due termini, ma il concetto di “idea” sarà ancora più utile.

“Idea”[3], dal greco ίδέα, cioè “aspetto, forma, apparenza”, a sua volta derivante dal verbo ίδέĩν, “vedere”. Dunque, idea e visione hanno già qualcosa in comune, cioè il “vedere”. È necessario, però, a questo punto, tralasciare tutto il discorso complessivo sull’idea riguardante l’argomento filosofico e platonico specialmente, poiché essenzialmente meriterebbe una lunga e specifica trattazione a parte, e non sono questi momento, sede e soggetto scrivente per farla. Aggiungo soltanto che l’idea platonica è molto simile alla definizione di idea come “attività della mente rivolta ad immaginare una possibile realtà (in contrapposizione alla realtà stessa)”. E sottolineo “(in contrapposizione alla realtà stessa)”. Tornando a noi, nel significato più ampio e generico, un’idea è “ogni singolo contenuto del pensiero, e, più in particolare, la rappresentazione di un oggetto alla mente, la nozione che la mente si forma e riceve di una cosa reale o immaginaria”. Esempi: l’idea di fuoco – cioè fiamma, calore, luce -, o l’idea di bene e male – più variabili soggettivamente -. Detto ciò, si apre una biforcazione: un’idea può essere “il prodotto dell’attività del pensiero, quindi un concetto che sta alla base, che è ispiratore, spunto per un’opera dell’ingegno o dell’arte, e soprattutto (per quello che ci interessa) la parte sostanziale, il contenuto di una dottrina da tradurre in realtà”. Dall’altro lato, l’idea può essere sempre un “prodotto della mente, ma dell’immaginazione, della fantasia, una credenza o speranza illusoria, cosa, in genere, non rispondente a realtà o verità”.

In sintesi, un’idea può essere “un modo di vedere e giudicare le cose, un’opinione, una intenzione, uno scopo”. Ma è importantissimo, fondamentale, sapere se essa ha come matrice di base una visione o un sogno. In modo particolarissimo nell’ambito della politica. Se l’architettura di un palazzo, una scultura, possono essere più o meno influenzate da una visione reale o da un sogno, ciò è molto meno vero per una “architettura” politica. Perché? Perché essa riguarda e coinvolge pesantemente la vita reale delle persone, di molte persone, e tutto ciò che ne consegue.

Nell’alveo politico è dunque necessario possedere un’idea. Ancor più necessario, a mio avviso, è possedere un’idea legata ad una visione politica e non ad un sogno politico. La visione, come suddetto, vuol dire “percepire gli stimoli che provengono dal reale”, e dunque “avere la capacità di vedere la realtà”. Da questa “capacità di vedere” discende la capacità di giudizio, di scelta. La visione precede l’idea di questa scelta, ciò che è propriamente “l’aspetto, la forma, l’apparenza” di questa “capacità di vedere”. L’idea derivante dalla “capacità di vedere”, dalla visione del reale, nella politica, è molto più veritiera e fondata rispetto all’idea derivante da un sogno di per sé molto più fallace e meno coerente.

Se la visione è “vedere” (videre) e l’idea è pure “vedere (ίδέĩν) e il sogno è “sonno” (somnus), se le parole hanno ancora un significato, è allora forse meglio fidarsi di chi vede e non di chi sogna, assegnando il sognare al suo giusto posto, che non è probabilmente il luogo politico.

Perché la differenza è sempre, in fondo, quella originaria: l’essere “svegli” o no.  


                                                                                             V. C.

[1] Voce “Visione”, Vocabolario online dell’Enciclopedia Treccani

[2] Voce “Sogno”, Vocabolario online dell’Enciclopedia Treccani
[3] Voce “Idea”, Vocabolario online dell’Enciclopedia Treccani

sabato 15 marzo 2014

Irreversibile

È sempre stato problematico, sia nella storia quanto nella vita di tutti i giorni, utilizzare il pesante aggettivo “irreversibile”. Questo perché, come generalmente risaputo, poche sono le cose irreversibili nel complesso delle vicende umane, le quali, in quanto tali, sono caratterizzate dalla stessa mutabilità dei soggetti che le vivono. Probabilmente, l’ultima espressione rimasta impressa ai più in cui si è manifestato l’aggettivo “irreversibile” è stata quella pronunciata dal governatore della Banca Centrale Europea Mario Draghi il 21 luglio 2012 e ribadita il 16 dicembre 2013: “l’Euro è un processo irreversibile”. Frase impegnativa, in quanto, come già anticipato, il parametro dell’irreversibilità è arduo da utilizzare già per le semplici vicende umane quotidiane, figuriamoci per grandi e complessi processi sociali, politici, economici.

In realtà, questa non è una novità. Basta infatti volgersi al più recente passato novecentesco per scovare almeno due esempi di piena fiducia nella “irreversibilità” degli eventi. La rivoluzione fascista, e in seguito quella nazista, erano destinate a cambiare radicalmente l’uomo attraverso un processo irreversibile di progressione verso “l’uomo nuovo”: non a caso, il III Reich era da considerarsi “millenario”, un qualcosa di definitivo, di, appunto, irreversibile; ancor di più e ancor prima, la rivoluzione socialista sarebbe dovuta diventare rivoluzione universale, destinata a coinvolgere tutti i paesi nel cammino verso il certo - e irreversibile – orizzonte comune: la presa del potere da parte del proletariato e la formazione della nuova società socialista. Entrambe le dottrine politiche, analizzate dalla storiografia tanto nelle loro differenze quanto nelle loro somiglianze – che non sono poche -, sono segnate da un indirizzo basato su un determinismo storico di fondo: le cose andranno così perche devono andare così e non possono non andare così.

Ma che c’entra questo discorso con l’esternazione di Draghi? Qualcosa c’entra, e per tentare di spiegarlo sarà comodo utilizzare il principale e più duraturo dei determinismi storici recenti: quello marxista-leninista. Gli eventi umani, per Marx, Lenin e per chi poi seguirà le loro orme, non possono che evolvere in una direzione: la presa di coscienza del proletariato della propria forza e il rivolgimento dello status quo borghese della società attraverso l’imposizione della nuova società socialista.

Al procedimento leninista di imposizione violenta della “dittatura del proletariato”, si manifesta in Italia, ad opera di Antonio Gramsci, il concetto di “egemonia”. A questo punto è utile citare lo storico Pietro Scoppola: “se la dittatura è imposizione, l’egemonia è un fatto spontaneo che nasce da una supremazia. All’imposizione rivoluzionaria si sostituisce così un processo fondato sulla forza spontanea di un’idea valida, sulla praticabilità del consenso[1]”. La domanda che, giustamente, lo storico si pone è: “il concetto di egemonia è sufficiente a conciliare la concezione marxista-leninista con i valori della tradizione liberaldemocratica? Nella visione di Gramsci l’egemonia è funzionale a un processo di trasformazione irreversibile. Il passaggio dalla società capitalistica a quella socialista non è un processo reversibile per volontà dei cittadini, ma è legato a un determinismo storico[2]”.

La conclusione, dunque, non può che essere una: “La riflessione gramsciana sull’egemonia non è sufficiente a creare una saldatura fra la concezione marxista-leninista e quella liberaldemocratica fondata essenzialmente sul principio della libera scelta e quindi della reversibilità delle decisioni. La democrazia esiste laddove un governo può essere sconfessato, messo in minoranza, cacciato. È questo il punto di arrivo di tutto il processo di sviluppo del liberalismo[3]”. A questa, qualche pagina più avanti, si aggiunge una conclusione di carattere più generale: “ … siamo spesso obbligati a riconoscere degli stati di necessità, ma gli spazi di libertà degli uomini (…) non sono né totali, né inesistenti. Tutte le filosofie della storia che si muovono su posizioni radicali non corrispondono alla realtà. Gli spazi di libertà umana individuale e collettiva, sono limitati ma esistono. (…) nella storia umana esistono limiti oggettivi alla libertà d’iniziativa e di scelta, condizionamenti che creano situazioni di necessità. (…) riconoscere che esistono stati di necessità non significa negare che ci siano dei costi[4]”.

Tornando, ora, alla frase pronunciata da Draghi, essa c’entra e interessa proprio perché sintomatica di un modo di pensare ed agire molto simile a quello che si è sopra descritto grazie alle parole di Scoppola. Un procedere cioè indirizzato, guidato, fissato da una filosofia della storia radicale, da un lampante determinismo storico.

Negli ultimi anni la realtà effettiva ha evidenziato in tutta la sua crudezza le svariate problematiche connesse all’adozione di un’unione monetaria tra paesi considerevolmente diversi. Numerosi ed autorevoli critici, vecchi e nuovi, (tra i quali si annoverano sette premi Nobel) spiegano l’importanza di prendere coscienza degli errori, di poter tornare sui propri passi e di poter cambiare le scelte, riscuotendo sostanziosi consensi nelle opinioni pubbliche nazionali sempre più desiderose di informazioni affidabili che riescano a spiegare con cognizione di causa le ragioni profonde di questa inspiegabile – e quasi esclusivamente europea – depressione infinita. Ciò accade, ma non conta.

Il percorso disegnato è, infatti, chiaro: l’Euro è irreversibile poiché è l’unico elemento che da sostanza alla parola “Europa”. Non importa che la parola sia la sintesi verbale secolare di un’entità geografica, sociale, religiosa, culturale, politica. Non importa che ben 10 stati su 28 dell’Unione Europea non facciano parte dell’unione monetaria. Non importa che un potere che tradizionalmente definiva il nucleo della sovranità e dell’indipendenza statuale moderna – come il governo della moneta – sia stato trasferito (erroneamente? Ideologicamente? Incautamente?) ad un ente formalmente comunitario ma che, de facto, è tarato e piegato sugli interessi di una sola nazione estera. Tutto ciò non importa, e come tale non è degno né di attenzione né di ascolto.

L’avvenire di un’Europa unita - ma dipende anche come ci si unisce, perché ci si unisce e se è necessario unirsi - passa necessariamente e irreversibilmente dall’Euro – il che, in termini edilizi, nonché della scienza politica, equivale a dire che si costruisce una casa dal tetto e non dalle fondamenta -. Là fuori c’è la Cina, cosa pensano di fare gli staterelli europei - come se qualcuno negasse la possibilità di ulteriori forme di alleanza, cooperazione ecc…, ma soprattutto, già, come fanno gli altri 203 stati del mondo che non sono la Cina? - ? Ed è qui che entra in gioco il concetto di “egemonia” come “praticabilità del consenso”: la supremazia, la forza spontanea dell’idea valida va e deve andare oltre la realtà e riscuotere consenso. Si spiega così il concetto ripetuto da Draghi e da tutti coloro che - e nelle classi dirigenti come nei media sono tanti - condividono deterministicamente l’idea superiore. Si potrebbe utilizzare, in questo caso, un’espressione che autodesignava alle porte della I guerra mondiale tutti coloro che nutrivano altissime quanto illusorie aspettative ideali verso il significato della guerra: comunità di destino. Ecco, la comunità di destino per raggiungere questo destino - non definito tra l’altro - è pronta a passare sopra ogni intoppo fattuale e ad includere tutti, volenti o nolenti, in questa comunità pellegrina.

Ma tanto ormai, si dirà, ciò che è fatto è fatto. È evidente che seguendo questo pensiero si va in primis contro il principio fondamentale della concezione liberaldemocratica a noi proprio, cioè quello suddetto della libera scelta e quindi della reversibilità delle decisioni; in secondo luogo, in base a tale ragionamento, allora nel passato avremmo dovuto lasciare tutto come si era definito e non tentare di cambiare il corso degli eventi: quindi il nazismo in Germania, il fascismo in Italia, la colonizzazione ecc…

Ricapitolando: “Tutte le filosofie della storia che si muovono su posizioni radicali non corrispondono alla realtà” e tendono a riempire tutti “gli spazi di libertà umana individuale e collettiva”, che “sono limitati ma esistono”. Ergo sono pericolose e vanno maneggiate con cura. Ergo bisogna sognare, sì, ma ogni tanto svegliarsi.

Ricorda qualcosa tutto ciò?

“I fatti sono testardi” usava dire Lenin…
                                                                                          
                                                                                                            V. C.





[1] Scoppola P., Lezioni sul novecento, Laterza, Bari, 2010, p.75
[2] Scoppola P., Lezioni sul novecento, Laterza, Bari, 2010, p.75
[3] Scoppola P., Lezioni sul novecento, Laterza, Bari, 2010, p.75
[4] Scoppola P., Lezioni sul novecento, Laterza, Bari, 2010, pp. 97, 98

venerdì 23 agosto 2013

Sull'articolo 1 della Costituzione


Articolo 1 della Costituzione:

“(1)L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. (2)La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

Per un grande giurista italiano, Costantino Mortati, questa disposizione sarebbe la supernorma costituzionale, a cui si riconducono tutti i principi contenuti nella Carta. Sul lavoro, sulla democrazia, sull’Italia stessa, credo ci sia pochissimo da aggiungere a quanto già detto da tanti.

Pur non essendo molto originale, mi permetto di proporre una riflessione sui “limiti” e sulle “forme” che la Costituzione impone al popolo di seguire nell’esercizio della sovranità.

Curiosità: il primo articolo è pieno di doveri, non di diritti. Questa frase forse è mendace, ma solo perché qualunque principio si traduce in diritto per qualcuno, e dovere per altri. Ma certamente il rispetto di quelle forme è un chiaro avvertimento pronunciato con la voce di Sordi alla moltitudine italica in bianco e nero: “Popolo! Tu vuoi governare? Vuoi essere sovrano? E allora rispetta l’ordine costituito, brutto popolo che non sei altro!”. Insomma, è come un intimo richiamo che il popolo rivolge a se stesso (oltre ad essere dal punto di vista giuridico la base del diritto italiano stesso). Tant’è che Calamandrei dirà: “Le dittature sorgono non dai governi che governano e durano, ma dall'impossibilità di governare dei governi democratici”. Dei mille significati che possiamo attribuire a questa frase, ne propongo uno: se non rispetti le procedure non governi, se non governi non duri, se non duri cedi il fianco all’antidemocrazia.

Potremmo citarne tanti di limiti e forme di esercizio della sovranità (forma di stato e di governo, rispetto del procedimento legislativo, del ruolo della magistratura, del ruolo del Parlamento e del governo, delle attribuzioni tra poteri dello Stato, delle disposizioni fiscali e tributarie, esercizio legittimo del potere costituito in tutte le sue forme, scongiurare a costo della carriera personale l’abuso di potere, riferirsi solo ed esclusivamente al diritto statuale per risolvere le proprie istanze ecc… ).

Ma torniamo alla governabilità. Il punto centrato da Calamandrei è sconvolgentemente verificabile in Italia. Berlusconi è stato accusato di regime, di instaurare una “larvata dittatura” sempre di Calamandreiana memoria, e qui non ci interessa approfondire la vicenda. Ma cosa accade quando in Italia si susseguono i Governi, quando movimenti di individui si muovono movimentando idee, desideri, passioni, voglie e infine istinti della plebe? Sì, voglio giocare con le parole. Accade che si origina un movimento verso il basso, come con i cicloni o meglio con lo sciacquone: movimento che poi è sinonimo di moto, che in italiano significa anche insurrezione, sommossa, tumulto. Una quasi rivoluzione.

Insomma, qualche buffone potrebbe convincerci con una “larvata rivoluzione” tanto quanto (forse, lo vedranno i posteri) il berlusconismo di inizio secolo ha giocato le sue carte in una “larvata dittatura”. 

Resta un aspetto da rilevare, lasciando ai commenti l’approfondimento dei temi solo lambiti in questo contributo, e scusandomi in anticipo per l’eventuale poca sensibilità utilizzata; se è valido in politica il c.d. principio di castrazione, secondo cui una libertà è esercitabile se da essa discendono delle precise responsabilità ben chiare a chi la esercita, potrebbe essere vero che la sovranità è esercitata dal popolo esclusivamente se il popolo è consapevole delle forme e dei limiti? Insomma, il popolo che vota e partecipa, ha un riscontro dell’esercizio della sovranità, oppure è come un povero eunuco?

Pensiamoci.

                                                                                              P.B.

martedì 4 giugno 2013

Se...

Se ritenere che non servano riforme costituzionali vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che non servano perchè forse il problema non sono le regole del gioco ma i giocatori vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che cambiare le istituzioni non serva a nulla se prima non migliora un pò chi deve abitarle vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che difendere l'attuale Costituzione non sia la reazionaria difesa di un mito ma un invito alla sua piena applicazione vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che la Costituzione italiana dia tutti gli strumenti per realizzare una buona democrazia rappresentativa ma che al momento quegli strumenti chiamati "corpi intermedi" siano alla deriva vuol dire essere un conservatore sì, io lo sono.
Se ritenere che la vera questione sia nel ridare senso e vita ai corpi intermedi, partiti su tutti, vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che la nostra Costituzione non sia vecchia dopo soli sessantacinque anni vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che la Gran Bretagna e gli USA siano ancora delle democrazie valide pur andando avanti con la stessa impalcatura costituzionale da centinaia di anni vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che a differenza della Gran Bretagna e degli USA le criticità nascano dalla scadente qualità della classe dirigente italiana, specialmente politica, che si riverbera in una debolezza degli enti intermedi vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono. 
Se ritenere che tra i padri costituenti vi siano state alcune delle migliori, lucide e lungimiranti menti della storia recente italiana vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che coloro che pretendono di innovare la Costituzione non siano all'altezza dei padri costituenti nè di ciò da loro prodotto vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che per cambiare le fondamenta della Costituzione occorra un'Assemblea Costituente e che una semplice commissione sia illegittima vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che ogni costituzione non rappresenti solo un mero eleaborato teorico ma anche il carattere, la storia e lo spirito di un popolo vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che la costituzione americana rispecchi la caratteristica tensione alla libertà e alla costruzione della felicita del popolo americano vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che la costituzione inglese non scritta ma rispettata rispecchi il noto pragmatismo del popolo inglese vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che le cinque repubbliche attraversate dai francesi rispecchino la loro storica irrequietezza vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che sì, la Francia è passata dalla quarta repubblica parlamentare alla quinta presidenziale, ma chi l'ha rivoltata è stato un certo Charles De Gaulle e non Quagliariello vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono. 
Se ritenere che la costituzione tedesca rispecchi anche la loro secolare esperienza federale vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che non a caso i padri costituenti abbiano scelto un regime parlamentare per gli italiani - popolo dei guelfi e dei ghibellini, dei campanili, degli scontri fratricidi, delle mille varietà - proprio perchè gli italiani si debbano "parlare" in un luogo che rappresenti e unisca le loro diversità per crescere insieme, se ciò vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che i padri costituenti avessero ben presente quanto sia facile per gli italiani nei momenti di difficoltà affidarsi inopinatamente all' "uomo della Provvidenza" vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che veniamo da anni in cui un solo uomo (in questo caso B., ma fosse stato chiunque altro) ha avuto una maggioranza parlamentare amplissima e dunque una capacità di azione politica piena ma che comunque non ha fatto nulla vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono. 
Se ritenere che in un paese in cui il sistema dell'informazione e della comunicazione, a prescindere dalle posizioni politiche, sia deformato e pregiudichi potenzialmente una corretta formazione dell'opinione pubblica vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che: "Oggi ho visto un concittadino uscire dalla banca piangendo. Gridava: non ce la faccio più a vivere con questa Costituzione!" (cit. @_zolf, twitter) vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che la priorità del popolo italiano al momento non sia la riforma costituzionale, ma la crisi economica, il lavoro, la disoccupazione giovanile, gli investimenti, un dibattito serio sui trattati europei stipulati, un sistema dell'istruzione carente, un sistema universitario martoriato, il dissesto idrogeologico, una migliore sanità ecc... vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono. 
Se ritenere che semplicemente non sia il momento opportuno per dilettarsi a dissertare sui più svariati sistemi politici ma che comunque se ne potrà parlare tranquillamente a tempo debito vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che con la stessa velocità con cui ci si occupa di formare una commissione per discutere e modificare la Costituzione si affrontasserero altre incombenze vicine al sentire del popolo italiano vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che una nuova legge elettorale che dia ai cittadini la possibilità di eleggere i candidati sia molto più urgente di un nuovo sistema istituzionale vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che al momento i livelli di demagogia e leaderismo sterile non consentano qualsivoglia svolta in senso presidenziale dello Stato vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che il sistema democratico rappresentativo sia più impegantivo perchè fondato sulla fiducia tra rappresentato e rappresentante e che sia proprio questa fiducia a mancare oggi, ma che comunque valga la pena ritentare e perseverare vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.

Se essere un conservatore vuol dire essere un custode, sì, io lo sono. Perchè si custodisce, se non per il futuro?

                                                                                            V. C. 

martedì 7 maggio 2013

“Società civile” e “Chiesa-popolo di Dio”



"Società civile” e “Chiesa-popolo di Dio” sono due concetti alla base di una visione partecipativa ed in senso lato democratica delle due dimensioni dell’Uomo occidentale. Ma davvero esistono nell’esperienza categorie così nettamente individuabili all’interno dei rispettivi ambiti?

Immaginiamo uno Stato-istituzione senza “società civile”; oppure una Chiesa-istituzione senza il  “popolo di Dio”: gusci vuoti. Anzi, per la verità, gusci artificiali vuoti.

In diversi ambienti, tanto civili quanto ecclesiastici, si verifica il solito abuso linguistico; si avverte quasi una contrapposizione tra queste astrazioni, queste categorie generiche, e una realtà istituzionale separabile. Si sente parlare di “noi della società civile” contro “loro della politica”, oppure “noi Chiesa comunità” contro una “Chiesa/clero/istituzione”. La parte sugli aspetti ecclesiastici è consultabile su http://fuciromasapienza.myblog.it/
Per quanto riguarda lo Stato, i politologi si esercitano da secoli sulla distinzione tra Stato-comunità e Stato-istituzione. Il diritto costituzionale, più rigoroso, supera queste questioni esteriori considerando lo Stato come ordinamento giuridico.

Dal punto di vista concreto e reale, fuori dalle elucubrazioni intellettuali, è del tutto banale la distinzione tra “società civile” e “politica” o Stato. Tanto perché in democrazia (rappresentativa o diretta) la società civile è la politica (partecipando a partiti e votando, oppure solo votando nel caso della diretta), quanto perché una politica che prescinde dalla società civile è destinata a non sopravvivere ed essere sostituita. Ma per la prima ragione, ad essere sostituita, in ultima analisi, è una parte della società civile, quella che si è impegnata nelle res publicae.

Quindi a fallire, da un punto di vista storico, è una generazione, un popolo di una determinata epoca: tutti gli Italiani, tutta la società, sono il prodotto della sua evoluzione (ovvero involuzione) culturale e sociale. Se i politici di fine ‘900 sono considerati “ladri”, è vero che in buona parte delle case, nel XX secolo e nei primi del XXI, si evade il canone RAI; oppure in buona parte degli esercizi commerciali non si adempiono oneri fiscali; etcc … . Insomma, buona parte dei politici è la rappresentazione di buona parte della società, perché i politici sono la società.
La soluzione? Dare una chance alla generazione successiva.



                                                                                            P. B.