Vorrei
porre l’attenzione su di un tema particolarmente delicato ma quasi abbandonato
da una società a solidarietà immatura,
per non dire fortemente carente, soprattutto nei confronti dei soggetti deboli quali il nascituro
concepito. Davanti il progredire della tecnica, l’osservatore, specialmente
quello cattolico, sembra assopito dai fumi di finta libertà intrinseca al
dominio del proprio corpo. L’uomo si considera centro di se stesso, non figlio
di un unico Padre, come noi cristiani crediamo. Le parole che scriverò non sono
rivestite da presunzione di completezza, l’argomento è fin troppo delicato e complesso;
vogliono soltanto presentare un monito e un tentativo di risveglio del nostro
io cosciente.
Il
legislatore[1] e la
giurisprudenza di riferimento sembrano avvalorare l’idea di un sistema
costituzionalmente orientato nella direzione di una preminente necessità di
protezione della salute della donna, senza considerare pienamente la figura del
nascituro concepito. La protezione della donna diventa bene supremo dinanzi al
quale, almeno de iure condito, ogni
altro bene, anche il diritto alla vita o, ove lo si ammetta, anche alla non
vita se non sana, sembra essere costretto a cedere il passo, giusto o sbagliato
che possa apparire. Proprio in senso contrario all’antico brocardo primum vivere, deinde filosofari. Si
manifesta quindi la tensione tra due opposti paradigmi: quello della bioetica laica, consistente nel «principio
della qualità della vita» e quello della bioetica
cattolica, consistente, invece, nel «principio della sacralità della vita».
Entrambi, però, da potersi considerare come giusti limiti al progresso
tecnico-scientifico[2]. In una
simile prospettiva, la bioetica sarebbe da considerare come strumento di
individuazione di giusti limiti al «progresso tecnico-scientifico» ed in
conseguenza della crisi di morali
assolute, manifestatasi in maniera devastante con il movimento nazista e
con i tragici eventi ad esso conseguenti che hanno segnato la fine dell’età dell’innocenza della scienza,
venendo messa in discussione la sua auctoritas[3].
La
problematica dei diritti umani non è
tanto più quella di giustificarli, quanto, quella di proteggerli, una questione
non filosofica, ma politica[4].
Appare evidente come l’art. 1 c.c., benché da intendersi norma fondamentale in
materia di tutela della persona e del concepito, non sembra, tuttavia, essere
sufficiente al fine di coordinare la tutela della soggettività giuridica con
quella della persona. Sembra esservi disomogeneità tra il concetto di soggetto di diritto e quello di persona, cui si rivolge la nostra
Costituzione e la Convenzione dei diritti dell’uomo. Persona sembra essere considerata l’essere naturale, meglio definita dalla filosofia come centro di relazioni, che è necessariamente
anche soggetto di diritti per l’ordinamento. Il concetto di soggetto di diritto e quello di persona umana sono ben distinti, non
omogenei e aventi diversi riferimenti normativi, risultando più ampia la
protezione della persona.
Quello
di persona è un concetto che
preesiste all’ordine giuridico che, pertanto, non la determina e non è neppure
in grado di porre limiti alla protezione di essa. Si spiega meglio, in tal
senso, l’incipit dell’art. 1, comma
1, della legge sulla interruzione di gravidanza[5]:
«lo Stato tutela la vita umana dal suo
inizio». La legge sembra prescindere da una personificazione del vivente. È assicurata tutela al nascituro a
prescindere dal suo essere persona,
almeno come tradizionalmente intesa. Di conseguenza vi è vita nell’embrione, vi è vita nel feto. L’unico limite
tollerabile alla protezione della vita del nascituro è la tutela della salute
della donna, essere naturale non in divenire, se si preferisce, persona fattasi.
Questa
situazione giuridica soggettiva più favorevole al nascituro, in termini di
estensione della tutela della persona, rappresenta, forse, la vera novità della
l. 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita. L’art. 1 della citata
legge «assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il
concepito». Nonostante la dizione usata dal legislatore sia oscura, sembra,
tuttavia, chiaro il riferimento al diritto alla vita e alla dignità del
nascituro, potendosi giustamente discutere addirittura sulla possibile
estensione del diritto alla vita sino a ricomprendere anche il diritto a
nascere sani. Nonostante alcuni autori, di dubbia derivazione politica, abbiano
affermato che tutelando il nascituro «si scorge la volontà di imporre un
modello di gestione del corpo della donna, sottratto alla libera gestione della
persona interessata», ci si chiede se sia in atto un parziale mutamento della
concezione stessa dei diritti fondamentali - con specifico riferimento ai
diritti umani - tradizionalmente intesi
come «diritti universali ed inalienabili a cui ogni individuo può appellarsi per
il fatto che, nascendo, arriva nel mondo come membro dell’umanità».
Sembra
dunque trovarsi una crisi bioetica del
diritto, nel senso che sia la scienza sia l’affermazione dei diritti umani
abdichino alla loro funzione di giusti limiti al potere della tecnica. Una
risposta, seppure debole e parziale, è stata data dalla l. n. 40 del 2004
invitando ad essere cauti e prudenti nel trattare l’embrione, non dovendo essere considerato come nulla. Questa potrebbe essere la linea interpretativa da percorrere in
materia, cercando di escludere pericolosi eccessi o, ancora peggio,
strumentalizzazioni sterili e superficiali. L’indagine deve essere ricondotta
anche e necessariamente sui doveri, specialmente in ambito familiare, di
preservare l’integrità, di garantire la nascita, la crescita, di proteggere la
salute del nascituro. «Bisogni ed interessi», questi, scrive Giorgio Oppo[6],
«attuali di quella entità vivente che è il feto a prescindere dalla sua
qualificazione come persona». L’autore
evidenzia come oggi ci si trovi di fronte al declino del soggetto ed all’ascesa
della persona, nel senso che «il progressivo passaggio dei diritti umani
dall’ordine sociale all’ordine statuale, può essere descritto come ascesa della
persona rispetto al soggetto; ma è anche ascesa dello stesso
soggetto, da una condizione di soggezione a una condizione di sempre più
centralità nell’ordine giuridico. Un declino
è quindi configurabile solo come riduzione di una posizione di prevalenza della
nozione e della realtà giuridica del soggetto rispetto alla nozione e alla
realtà della persona, non come perdita di sostanziale giuridicità».
Tutto
ciò già accadeva nell’antico diritto
romano, del quale sorprende la modernità: chi è capace, anche prima della
nascita, è da considerare a tutti gli effetti persona. Punto di forza del diritto romano classico e giustinianeo
era la non elaborazione di concetti astratti, se non quando fossero
estremamente necessari. Già dall’utilizzo della terminologia si evidenzia la
sensibilità dei giureconsulti classici in tema di nascituri concepiti. Il termine
più usato è qui in utero est, che
esprime un concetto estremamente concreto. Accanto a questo viene usato anche partus (può indicare, oltre al
partorire, anche il nascituro ed il nato) per sottolineare la continuità tra il
nascituro e il nato attraverso l’atto del partorire. Il termine fetus non è usato dai giuristi in
riferimento all’uomo, ma soltanto per gli animali[7].
La Costituzione italiana, all’art. 32, in riferimento al fondamentale diritto alla salute, usa il concetto giuridico,
perfettamente adeguato alla rerum natura,
di individuo. Con ciò viene
implicitamente affermata, al di sopra di ogni discussione positivistica, la
titolarità di diritti di ogni individuo umano esistente, anche concepito. Nonostante
in Italia sia prevalso l’individualismo, esso sembra venir affievolito dalla
giurisprudenza della Corte Costituzionale italiana a partire dal 1997. Il
diritto alla vita dell’individuo deve essere integrato nel diritto alla vita del popolo: un diritto alla vita inteso in modo
totale. La via inizia concettualmente nel rapporto tra individuo e collettività
indicata dal giurista Alfeno Varo, alla fine dell’età repubblicana; la via si
sviluppa grazie al favore per il
nascituro precisato da Ulpiano, Paolo, Marciano; la via conduce all’aumento
della cittadinanza da Caracalla a Giustiniano.Non vanno dimenticati, oggi, i
problemi dello status (ad es. la
cittadinanza dei nuovi nati, l’adozione dei concepiti), così come quello degli
alimenti.
Quanto
alla convergenza dei sistemi giuridici appare utile ricordare la discussione
tra Rabbi Jehudà il patriarca e l’imperatore Antonino (forse Marco Aurelio) che
si trova nel Talmud[8]:
«Antonino ha chiesto a Rabbi: ”da quando viene introdotta l’anima nell’uomo,
dall’ora del concepimento o dall’ora della formazione [dell’embrione]?”. Gli
rispose: “dall’ora della formazione”. Gli disse [Antonino a Rabbi]: “è mai
possibile che un pezzo di carne stia tre giorni senza sale, senza andare a male?
Certo deve essere dall’ora del concepimento [lett. la visitazione]”. Ha detto
Rabbi:”questo mi ha insegnato Antonino e vi è un passo biblico che lo conferma,
come è detto: Mi hai donato vita e mi hai usato misericordia e la tua
visitazione conservò il mio spirito”».
Questo
rispetto per l’individuo, in cui convergono l’Ebreo e il Romano, si scontra con
l’odierno individualismo del più forte che minaccia la crescita di ogni popolo.
E. D. M.
[1] L. 194/1978 sull’aborto
e L. 40/2004 sulla riproduzione assistita.
[2] Limiti sui quali
si è iniziato a discutere seriamente durante il Processo di Norimberga con le
sue tragiche e drammatiche rilevazioni.
[3] F. Rinaldi, Relazione del 5.4.2013 presso Università degli Studi di Cassino
nell’ambito di un seminario svolto per le attività del Dottorato in Diritti
fondamentali.
[4] N. Bobbio, Sul fondamento dei diritti dell’uomo, in L’età dei diritti, Torino, 1990, p. 52 ss.
[5] L. n. 194/1978
[6] G. Oppo, L’inizio della vita umana, in Riv.
dir.civ., 1982, p. 504
[7] P. Catalano, Diritto, soggetti, oggetti, in Iuris
Vincula, Napoli, 200, p. 98 ss.
[8]
T.B. Sanhedrin 91 a. Stessa questione
posto dai padri della Chiesa tra Tertulliano e Sant’Agostino.
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