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mercoledì 1 ottobre 2014

Le crisi, i conflitti, la sorpresa

Viviamo in un periodo di crisi e conflitti generalizzati. Ma non è una novità. I canali diplomatici non hanno ancora trovato i sentieri giusti e non si sa se e quando li troveranno, dunque il mondo assiso attende. Ma anche questa non è una novità. Un militante islamico per la guerra santa a volto coperto e con accento marcatamente inglese decapita disumanamente in differita mondiale un giornalista americano dopo l'altro. E qui lo sguardo dell'occidente si illumina di sorpresa. "Ma ha l'accento inglese! Ma è inglese? Non può essere inglese!". 
E invece sì, è inglese. E' un ex rapper londinese di origine egiziana, da molti anni ormai residente nella capitale in una casa del valore di circa un milione di sterline dicono le cronache. 
Ma non è solo. Qualche giorno prima un bimbo di sette anni impugna fieramente dai capelli una testa mozzata. L'ha portato con sè il padre jihadista. Sono australiani. Ma non sono soli. C'è anche una ex cantantucola americana. Dice che gli infedeli meritano tutti la decapitazione con un coltellaccio. Sembra che ci siano anche decine di italiani, sia d'origine che di seconda generazione. E canadesi. E francesi, tedeschi, belgi, altri inglesi. No, non sono stati rapiti, costretti alla conversione e ad arruolarsi per la jihad. L'hanno voluto loro, l'hanno scelto loro. L'occidente spalanca anche la bocca ora. 

Com'è possibile? Com'è possibile che figli delle zone più ricche, avanzate e progredite del mondo scelgano di loro spontanea volontà di rinnegare tutto ciò che li rendeva tali, comprese religione e famiglia, e di proiettarsi in una dimensione vecchia di secoli dominata dalla guerra permanente e dalla brutalità? E' possibile. Non solo è possibile. Succede. 
Legge dei grandi numeri? Un caso? Pochi squilibrati? Casi-limite? Certo, può essere; anzi, sarà così. Basta trovare qualcuno che ti indottrini per bene e ti faccia un pò di lavaggio del cervello e il gioco è fatto. Capita. Quante volte vediamo nelle nostre società persone che cedono a santoni, chiaroveggenti, sette. Non è poi così insolito. 
Se l'occidente dunque volesse chiudere la questione in modo semplice, veloce e indolore potrebbe farlo. Ma sicuramente non la esaurirà pienamente. Perchè forse ci possono essere altri motivi più profondi oltre la superficie; e scavare stanca. 

Possiamo provare a fare qualche ipotesi, ma ciò richiede un guardarsi allo specchio da parte dell'occidente. Uno specchio che potrebbe sembrare simile al ritratto di Dorian Grey, e l'occidente, o, in questo caso,  "Dorian", ci penserebbe bene due volte prima di specchiarvisi. 
Ma forse conviene molto più utilizzare uno scenario classico: genitori - figli. Attenzione: si profila un alto contenuto moraleggiante.

Sembra quasi che la società occidentale non conosca più i suoi figli e che, a loro volta, i figli non riconoscano più quella che sembrava essere la loro madre. E questo perchè non comunicano. I figli dell'occidente, ad un certo punto, raggiunta la facoltà di poter elaborare un proprio punto di vista rappresentativo, si interrogano su cosa abbia trasmesso loro la società in cui vivono. Spesso se gli abbia trasmesso qualcosa. E come nella più classica trama di un film americano per ragazzi in cui si narra di giovanotti benestanti alle prese con le vicende e problemi della maturità, molti scoprono di aver ricevuto poco o nulla dentro e molto fuori. 
Non valori a cui tenere, ma auto potenti; non principi in cui credere, ma palazzoni d'acciaio; non prospettive d'insieme, ma disagio individuale; non induzione alla speranza ma drenaggio continuo di quei pochi punti fermi che sembravano esistere. 
Mentre pressoché tutti commentano rassegnati il volto dello status quo, i più inicuri volgono lo sguardo altrove, dove la loro totale assenza può rimanere affascinata dalla presenza totale e totalizzante. Al pericolo del totalmente vuoto si somma, così, il pericolo del totalmente pieno. 

E' una storia vecchia, riassunta nella celebre massima che dice più o meno così: "per un uomo che è sempre stato privo di idee, l'avere un'idea può renderlo ubriaco". I figli occidentali dell'Isis sono probabilmente questo, persone stordite dal vuoto e ubriacate da una nuova pienezza. Un pò come la droga, l'alcool, il gioco d'azzardo, combattere per la jihad e sentirsi parte di una comunità di destino, di uno scopo più grande possono inebriare e far sentire vivi. Sentirsi vivi rinnegando tutto il passato e togliendo vite.
Ciò potrà sembrare una spicciola narrazione in funzione di una morale della favola di stampo vagamente pauperistico, se non addirittura indirettamente giustificatrice dei misfatti degli europei dell'Isis. L'occidente brutto e cattivo perchè ricco e tutto il resto povero e buono. 
No, sarebbe troppo semplice e fuorviante. E sarei il primo a non condividere un'impostazione del genere.
Il nocciolo della questione sta nel fatto che l'occidente, da qualche lustro, non sa più crescere. Non che non debba crescere, perchè sarebbe assurdo. 

Da un pò di tempo a questa parte, l'occidente ha deciso di avanzare e di tirar su i propri figli tralasciando o misconoscendo molto di quel bagaglio culturale, sociale e religioso che gli è proprio, che è sempre stato pilastro del suo progresso e che gli ha permesso di assurgere a modello di civiltà. Alcune basi come la fondamentale rilevanza del lavoro per la dignità e la realizzazione personali vengono sempre più calpestate, altre come l' importanza della dimensione sociale e comunitaria a partire dal nucleo familiare, inquinate. Altre ancora come un'istruzione formativa e la partecipazione civica, disincentivate o sminuite. Così facendo si potrà forse crescere economicamente - e come vediamo, neanche quello - ma non progredire integralmente. 
E quando capiterà che sempre più figli dell'occidente si volgeranno a sfogare in altri canali illusori e devianti queste necessità quasi ancestrali e antropologiche dell'uomo occidentale, troveremo probabilmente un occidente invecchiato, decadente e balbettante

                                                                                                          V. C. 

mercoledì 26 marzo 2014

Visione, sogno, politica

Quante volte udiamo la parola “sogno” nel dibattito politico odierno? Tante. “Sogniamo un’Italia così…”, “dobbiamo credere in questo sogno…”, “il sogno di un’Italia nuova…”, “il sogno dei giovani per l’Italia, per l’Europa…”, “non bisogna distruggere questo grande sogno…”, eccetera, eccetera, eccetera.

Rinsaviti dalla sbornia da logorrea politicante, la domanda sorge spontanea: è giusto, è adeguato utilizzare tale termine nel linguaggio politico? O non è forse errato dal punto di vista sostanziale e, agli estremi, fuorviante? Effettivamente, ciò potrebbe risultare vero. Perché in realtà, il grande assente non solo nell’ambito del linguaggio ma specialmente dal punto di vista fattuale, risulta essere il termine “visione”. Nella politica conta di più il sogno o la visione? Ma soprattutto, non sono tutto sommato la stessa cosa? Di fondo, no. Andiamo con ordine, aggiungendo come terzo “comodo” il termine “idea” e il suo significato, il concetto insito nella sua forma verbale.

“Visione”[1] viene dal latino videre e, di base, vuol dire “vedere”. Tralasciando il significato più trascendente, cioè quello di “scena, immagine straordinaria che si vede o si crede di aver visto in stato di estasi o per cause soprannaturali”, è già molto chiaro il significato propriamente fisiologico: “(la visione) è il processo di percezione degli stimoli luminosi, la capacità di vedere”. Partendo da ciò ed estendendo questo significato all’ambito più generale, la visione è, molto semplicemente, “l’azione, il fatto di vedere una cosa per esaminarla, trarne notizie utili”. Dilatando temporalmente questo processo, questa azione, la visione diviene in sintesi “un modo di vedere, un concetto, un’idea personale – dilato anche io e aggiungo: politica – che si ha in merito a qualcosa”. Il procedimento sembra dunque molto semplice: la luce illumina il bicchiere. Percepisco questo stimolo luminoso e dunque sono capace di vedere quell’oggetto. Ciò mi rende possibile esaminarlo e vedo che è una struttura poco alta e cava dentro. Da ciò avrò il concetto o l’idea che qualsiasi altro oggetto simile sarà quello che definisco “bicchiere”.

“Sogno”[2] proviene invece dal latino sŏmnium, a sua volta derivante da somnus, cioè “sonno”. Già qui vorrei sottolineare la differenza tra videre e somnus: l’essere svegli; tanto è vero che si dice “ho fatto un sogno” e non “ho visto un sogno”. Atteniamoci ai due significati più importanti e generali: “in senso ampio, ogni attività mentale, anche frammentaria, che si svolge durante il sonno; in senso più stretto e più comune, l’attività (mentale) più o meno nitida e dettagliata, con una struttura narrativa più o meno coerente; immaginazione vana, fantastica, di cose irrealizzabili”. Anche in questo caso il procedimento è semplice: durante il sonno sogno un essere alato sputa fuoco con zampe di cavallo e testa di leone che mi insegue e vuole uccidermi; io lo sconfiggo con una balestra con dardi-laser. Per me dormiente, tutto molto realistico.

Forse si sarà già inteso qual è lo spartiacque tra i due termini, ma il concetto di “idea” sarà ancora più utile.

“Idea”[3], dal greco ίδέα, cioè “aspetto, forma, apparenza”, a sua volta derivante dal verbo ίδέĩν, “vedere”. Dunque, idea e visione hanno già qualcosa in comune, cioè il “vedere”. È necessario, però, a questo punto, tralasciare tutto il discorso complessivo sull’idea riguardante l’argomento filosofico e platonico specialmente, poiché essenzialmente meriterebbe una lunga e specifica trattazione a parte, e non sono questi momento, sede e soggetto scrivente per farla. Aggiungo soltanto che l’idea platonica è molto simile alla definizione di idea come “attività della mente rivolta ad immaginare una possibile realtà (in contrapposizione alla realtà stessa)”. E sottolineo “(in contrapposizione alla realtà stessa)”. Tornando a noi, nel significato più ampio e generico, un’idea è “ogni singolo contenuto del pensiero, e, più in particolare, la rappresentazione di un oggetto alla mente, la nozione che la mente si forma e riceve di una cosa reale o immaginaria”. Esempi: l’idea di fuoco – cioè fiamma, calore, luce -, o l’idea di bene e male – più variabili soggettivamente -. Detto ciò, si apre una biforcazione: un’idea può essere “il prodotto dell’attività del pensiero, quindi un concetto che sta alla base, che è ispiratore, spunto per un’opera dell’ingegno o dell’arte, e soprattutto (per quello che ci interessa) la parte sostanziale, il contenuto di una dottrina da tradurre in realtà”. Dall’altro lato, l’idea può essere sempre un “prodotto della mente, ma dell’immaginazione, della fantasia, una credenza o speranza illusoria, cosa, in genere, non rispondente a realtà o verità”.

In sintesi, un’idea può essere “un modo di vedere e giudicare le cose, un’opinione, una intenzione, uno scopo”. Ma è importantissimo, fondamentale, sapere se essa ha come matrice di base una visione o un sogno. In modo particolarissimo nell’ambito della politica. Se l’architettura di un palazzo, una scultura, possono essere più o meno influenzate da una visione reale o da un sogno, ciò è molto meno vero per una “architettura” politica. Perché? Perché essa riguarda e coinvolge pesantemente la vita reale delle persone, di molte persone, e tutto ciò che ne consegue.

Nell’alveo politico è dunque necessario possedere un’idea. Ancor più necessario, a mio avviso, è possedere un’idea legata ad una visione politica e non ad un sogno politico. La visione, come suddetto, vuol dire “percepire gli stimoli che provengono dal reale”, e dunque “avere la capacità di vedere la realtà”. Da questa “capacità di vedere” discende la capacità di giudizio, di scelta. La visione precede l’idea di questa scelta, ciò che è propriamente “l’aspetto, la forma, l’apparenza” di questa “capacità di vedere”. L’idea derivante dalla “capacità di vedere”, dalla visione del reale, nella politica, è molto più veritiera e fondata rispetto all’idea derivante da un sogno di per sé molto più fallace e meno coerente.

Se la visione è “vedere” (videre) e l’idea è pure “vedere (ίδέĩν) e il sogno è “sonno” (somnus), se le parole hanno ancora un significato, è allora forse meglio fidarsi di chi vede e non di chi sogna, assegnando il sognare al suo giusto posto, che non è probabilmente il luogo politico.

Perché la differenza è sempre, in fondo, quella originaria: l’essere “svegli” o no.  


                                                                                             V. C.

[1] Voce “Visione”, Vocabolario online dell’Enciclopedia Treccani

[2] Voce “Sogno”, Vocabolario online dell’Enciclopedia Treccani
[3] Voce “Idea”, Vocabolario online dell’Enciclopedia Treccani