sabato 23 febbraio 2013

Politicità del cristianesimo oggi


estratti di Augusto Del Noce[1]


A.Del Noce
Il problema di una politicità del cristianesimo oggi non è semplicemente il problema di una politica che garantisca gli istituti cristiani. È invece il problema se il cristianesimo possa venire incontrato a partire dalle antinomie politiche di oggi. Non si tratta cioè di un patrimonio da difendere ma di una forma di vita da ritrovare.

L’odierno problema politico dell’Europa sembra potersi enunciare come problema del superamento dei totalitarismi. Formula che può sembrare fin troppo semplice, tante brave persone credono che i totalitarismi siano superati da decenni e la democrazia divenuta forma politica essenziale dell’Europa. Eppure l’osservazione spassionata dell’Europa occidentale del 1915-1945 porta alla conclusione sconfortante della vittoria generale delle forme totalitarie[2].


Questa l’osservazione spassionata: due forme totalitarie sono state sconfitte, ma questo non vuol dire affatto che non possano sorgerne altre.

Seconda osservazione sconfortante: risorgono ora in ogni Paese d’Europa quelle forme socialdemocratiche che non hanno saputo resistere all’urto. C’è da domandarsi se molti tra gli esperti della politica non pensino a ridurre la crisi europea tra le due guerre a una crisi di moralità. E in forma appena leggermente più critica quanti non pensano di ridurre nazismo e fascismo a esasperazioni del nazionalismo o a nazionalismo senz’altro, che esasperazione sembra pleonasmo; spiegazione moralistica anche questa, venendo considerato il nazionalismo come l’immoralità trasportata nei rapporti tra nazioni. Ma forse la domanda è se si possa veramente parlare di nazionalismo come sostantivo; e se il nazionalismo non esista concretamente che come qualificativo di determinate politiche che nazionalistiche diventano necessariamente per l’importanza di trasformare il proprio paese in una comunità, altrimenti che mediante una tensione contro l’esterno; il nazionalismo sega così il limite di debolezza di una linea politica. Il che sembrerebbe confermato dalla mitologizzazione del passato caratteristica di ogni forma nazionalista, mitologizzazione che stabilisce il nesso culturale di nazionalismo e decadentismo; e confermato per altra via dalla tesi che Gaetano De Sanctis svolge nella sua “Storia dei Romani”, mostrando come l’impero romano non si sia formato in esecuzione di un prestabilito piano imperialistico, e sulla base di necessità difensive piuttosto che offensive.


Nella spiegazione moralistica tutto è certo estremamente chiaro: “il totalitarismo maschera la volontà di un governante che pensa all’interesse proprio o della sua cricca piuttosto che al bene comune”. Ma una simile tesi non sa vincere l’ostacolo di questa pur tanto semplice riflessione: che per il dittatore l’interesse comune coincide con l’interesse proprio, come nell’interesse del fabbricante di automobili rientra il costruir buone vetture e che perciò egli non può non agire per quel che egli pensa bene comune: la critica deve perciò appuntarsi sul modo in cui egli pensa al bene comune. Altrimenti detto, il peccato dei totalitarismi è teoretico e non morale; e il bene comune non è affatto un concetto normativo; ed è anzi nel giudizio pratico politico concreto un verbalismo di nessuna utilità.


I totalitarismi non hanno la loro radice in volontà malvagie, ma in un determinato modo di prospettare la funzione politica nella vita dello spirito; cioè in una determinata intuizione dell’uomo, vissuta anche se non chiaramente passata; e vissuta talvolta in un modo particolare da rendere impossibile il suo riconoscimento in una formulazione espressa.

Più specifica è un’altra interpretazione che si va introducendo in certi ambienti culturali. Un qualsiasi regime diventa totalitario quando si sente debole. In tal modo la libertà come metodo cessa di avere un valore assoluto, diventa uno strumento di cui una classe si serve; come maschera del suo prepotere, se anche può servire alla classe avversa per la preparazione di una rivoluzione liberatrice. Di conseguenza la storia di prospetta come un succedersi di dittature di classi nella linea segnata dal manifesto comunista; sino all’ultima e liberatrice dittatura, quella del proletariato, che stabilisce le condizioni per la libertà effettiva. Questo ragionamento rappresenta una delle tante intrusioni inconsapevoli del materialismo storico. E tende ora a diffondersi anche in ambienti non comunisti grazie all’insidiosa moda di sostituire il concetto di liberazione, come concretarsi dinamico della libertà, a quello di libertà.


Le radici vere del totalitarismo  stanno nell’elevazione della politica a religione. Infatti la caratteristica  maggiore del nostro tempo è la tendenza alla considerazione del valore politico come valore ultimo e definitiva istanza rispetto a cui tutti gli altri valori devono venire giudicati; e l’ideale della cultura sarà quello di una cultura che non debba più consolare delle sofferenze ma eliminarle; ossia di una cultura “servizio della società”, che perciò non potrà avere come criterio valutativo che la volontà politica.

Il nesso tra la tesi del valore politico come valore ultimo e la politica totalitaria. L’uomo in una tale prospettiva è in rapporto soltanto con la società: il suo modo di pensare dipende dal suo essere sociale. Non nel senso ambientale del vecchio sociologismo; ma in quello che le idee sono idee di un soggetto in rapporto soltanto con altri uomini, di un soggetto in una determinata situazione sociale. L’uomo dei totalitarismi capovolge l’uomo platonico-agostiniano: non è la presenza nella mia coscienza di un principio ideale, che provoca la mia reazione al mondo; al contrario, le idee non sono che l’articolarsi del mio senso di reazione al mondo, come soggetto impegnato in una determinata situazione: sono perciò pratiche per la loro essenza, strumenti del mio bisogno di conversare o di innovare. All’unità degli uomini come figli di Dio succede la loro distinzione come uomini di classi, razze, nazioni differenti, e la lotta come espressione di tale distinzione.

Se le idee sono idee di un uomo in una determinata situazione sociale non si potrà cangiare l’uomo se non cangiando la società; il cambiamento dell’uomo sarà conseguenza del cangiamento della società e non l’inverso; il processo di azione dell’uomo dovrà andare, per così dire, dall’esterno all’interno. Quindi al rapporto di persuasione succede necessariamente il rapporto di violenza.


È in relazione a questa opposizione che si potrebbe intendere quale debba essere il senso odierno di democrazia. Questa non può essere più sufficientemente caratterizzata come “governo dal basso” contro “governo dall’alto”, o governo della maggioranza e simili. Non solo si deve insistere sull’essenzialità del rispetto delle minoranze, ma fondarne il concetto sull’esigenza fondamentale del rispetto del singolo. Ossia democrazia dovrà essere intesa come quel regime in cui viene reso impossibile a ognuno l’agire su altri se non in termini di persuasione; o. definizioni equivalenti che fanno meglio vedere la virtualità della prima forma, regime in cui ogni soggetto viene considerato come soggetto di persuasione, cioè come persona o regime in cui ogni singolo deve potersi considerare anche come fine e nessuno come unico fine dell’intero processo sociale. Anche la riforma economica deve essere pensata e attuata, nei suoi scopi come nei suoi metodi, in relazione a questa fondamentale definizione.

Se a fondamento dunque dei totalitarismi non sta malvagità di uomini o debolezza di classi ma un’idea dell’uomo, opporsi a essi sarà soltanto possibile rivendicando nell’uomo un principio spirituale indipendente dalla società (solo così l’uomo individuale non sarà più l’uomo di una società, ma sarà per sé - persona - e costituirà proprio come uomo individuo il fine ultimo dell’ordinamento sociale nella linea democratico-personalistica). Affermando in una parola l’idea cristiana dell’uomo.


Ciò porterebbe pure a un problema filosofico – intimo compenetrarsi oggi di filosofia e di politica perché la crisi politica attuale è l’espressione di una crisi metafisica. Il tema fondamentale della problematica filosofica di oggi è quello della libertà dell’uomo – e se il Dio trascendente potrà essere riaffermato sarà unicamente mostrando come l’uomo possa affermarsi libero soltanto nel suo riconoscimento.

Ma rimaniamo nei termini dell’attualità politica. La sua forma implica che non si possa essere oggi politicamente cristiani semplicemente rivendicando il diritto di esser tali o richiedendo la libertà di una confessione positiva o il permanere di certi istituti morali e giuridici; ma invece affermando la libertà spirituale di ogni individuo. Ciò importa pure in un (eventuale) partito cristiano la rigorosa non confessionalità: come difesa dei valori morali e umani del cristianesimo (la realtà della persona), indipendentemente dall’inquadramento filosofico e teologico in cui si cerchi di essi la consapevolezza ultima.

C’è un movimento di convergenza oggi di cristianesimo e di liberalismo. Si è visto come la funzione liberale spetti oggi al cristianesimo. Ma i cristiani devono abbandonare il presupposto che l’affermazione dell’uomo cristiano coincida con quella del ritorno all’uomo medievale: e ai liberali si richiede consapevolezza del nucleo cristiano delle loro idee.


Mi sono limitato a riportare brevi passaggi del pensiero di Augusto Del Noce che ritenevo calzanti alla luce di tutto ciò che è stato detto e ridetto durante questa breve, anche se intensa, campagna elettorale. Tengo ad evidenziare la necessità di riproporre al centro della politica del nostro Paese l’ ”idea cristiana di uomo”. Appello rivolto a tutte le forze politiche in campo, che tra i loro attacchi reciproci, spesso dimenticano il pilastro della società. “Chi ha orecchie per intendere…”.

                                                                                             E.D.M.





[1] Estratti da “COSTUME”, a.II, n. 1, gennaio-febbraio 1946, pp. 59-68.


[2] La stessa forma democratica realizzata in Francia che non ha retto all’urto del’40.

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