estratti di Augusto Del Noce[1]
A.Del Noce |
L’odierno problema
politico dell’Europa sembra potersi enunciare come problema del superamento dei totalitarismi. Formula
che può sembrare fin troppo semplice, tante brave persone credono che i
totalitarismi siano superati da decenni e la democrazia divenuta forma politica
essenziale dell’Europa. Eppure l’osservazione spassionata dell’Europa
occidentale del 1915-1945 porta alla conclusione sconfortante della vittoria
generale delle forme totalitarie[2].
Questa l’osservazione
spassionata: due forme totalitarie sono state sconfitte, ma questo non vuol
dire affatto che non possano sorgerne altre.
Seconda osservazione sconfortante:
risorgono ora in ogni Paese d’Europa quelle forme socialdemocratiche che non
hanno saputo resistere all’urto. C’è da domandarsi se molti tra gli esperti
della politica non pensino a ridurre la crisi europea tra le due guerre a una crisi di moralità. E in forma appena
leggermente più critica quanti non pensano di ridurre nazismo e fascismo a esasperazioni del nazionalismo o a
nazionalismo senz’altro, che esasperazione sembra pleonasmo; spiegazione
moralistica anche questa, venendo considerato il nazionalismo come l’immoralità
trasportata nei rapporti tra nazioni. Ma forse la domanda è se si possa
veramente parlare di nazionalismo come sostantivo; e se il nazionalismo non
esista concretamente che come qualificativo di determinate politiche che nazionalistiche
diventano necessariamente per l’importanza di trasformare il proprio paese in
una comunità, altrimenti che mediante una tensione contro l’esterno; il
nazionalismo sega così il limite di debolezza di una linea politica. Il che
sembrerebbe confermato dalla mitologizzazione del passato caratteristica di
ogni forma nazionalista, mitologizzazione che stabilisce il nesso culturale di
nazionalismo e decadentismo; e confermato per altra via dalla tesi che Gaetano
De Sanctis svolge nella sua “Storia dei Romani”, mostrando come l’impero romano
non si sia formato in esecuzione di un prestabilito piano imperialistico, e
sulla base di necessità difensive piuttosto che offensive.
Nella spiegazione
moralistica tutto è certo estremamente chiaro: “il totalitarismo maschera la
volontà di un governante che pensa all’interesse proprio o della sua cricca
piuttosto che al bene comune”. Ma una simile tesi non sa vincere l’ostacolo di
questa pur tanto semplice riflessione: che per il dittatore l’interesse comune
coincide con l’interesse proprio, come nell’interesse del fabbricante di
automobili rientra il costruir buone vetture e che perciò egli non può non
agire per quel che egli pensa bene comune: la critica deve perciò appuntarsi sul modo in cui egli pensa al bene
comune. Altrimenti detto, il peccato dei totalitarismi è teoretico e non morale; e il bene comune non è affatto un concetto
normativo; ed è anzi nel giudizio pratico politico concreto un verbalismo di
nessuna utilità.
I
totalitarismi non hanno la loro radice in volontà malvagie, ma in un
determinato modo di prospettare la funzione politica nella vita dello spirito;
cioè in una determinata intuizione dell’uomo, vissuta anche se non chiaramente
passata; e vissuta talvolta in un modo particolare da rendere impossibile il
suo riconoscimento in una formulazione espressa.
Più specifica è
un’altra interpretazione che si va introducendo in certi ambienti culturali. Un qualsiasi regime diventa totalitario
quando si sente debole. In tal modo la
libertà come metodo cessa di avere un valore assoluto, diventa uno
strumento di cui una classe si serve; come maschera del suo prepotere, se anche
può servire alla classe avversa per la preparazione di una rivoluzione
liberatrice. Di conseguenza la storia di prospetta come un succedersi di
dittature di classi nella linea segnata dal manifesto comunista; sino
all’ultima e liberatrice dittatura, quella del proletariato, che stabilisce le
condizioni per la libertà effettiva. Questo ragionamento rappresenta una delle
tante intrusioni inconsapevoli del materialismo storico. E tende ora a
diffondersi anche in ambienti non comunisti grazie all’insidiosa moda di
sostituire il concetto di liberazione,
come concretarsi dinamico della libertà, a quello di libertà.
Le radici vere del
totalitarismo stanno nell’elevazione della politica a religione.
Infatti la caratteristica maggiore del
nostro tempo è la tendenza alla considerazione
del valore politico come valore ultimo e definitiva istanza rispetto a cui
tutti gli altri valori devono venire giudicati; e l’ideale della cultura
sarà quello di una cultura che non debba più consolare delle sofferenze ma
eliminarle; ossia di una cultura “servizio della società”, che perciò non potrà
avere come criterio valutativo che la volontà
politica.
Il nesso tra la tesi
del valore politico come valore ultimo e la politica totalitaria. L’uomo in una
tale prospettiva è in rapporto soltanto
con la società: il suo modo di pensare dipende dal suo essere sociale. Non
nel senso ambientale del vecchio sociologismo; ma in quello che le idee sono
idee di un soggetto in rapporto soltanto
con altri uomini, di un soggetto in una determinata situazione sociale.
L’uomo dei totalitarismi capovolge l’uomo platonico-agostiniano: non è la
presenza nella mia coscienza di un principio ideale, che provoca la mia
reazione al mondo; al contrario, le idee non sono che l’articolarsi del mio
senso di reazione al mondo, come soggetto impegnato in una determinata
situazione: sono perciò pratiche per
la loro essenza, strumenti del mio bisogno di conversare o di innovare.
All’unità degli uomini come figli di Dio
succede la loro distinzione come uomini di classi, razze, nazioni
differenti, e la lotta come espressione di tale distinzione.
Se le idee sono idee di
un uomo in una determinata situazione sociale non si potrà cangiare l’uomo se non cangiando la società; il cambiamento
dell’uomo sarà conseguenza del
cangiamento della società e non l’inverso; il processo di azione dell’uomo
dovrà andare, per così dire, dall’esterno all’interno. Quindi al rapporto
di persuasione succede necessariamente il rapporto di violenza.
È in relazione a questa
opposizione che si potrebbe intendere quale debba essere il senso odierno di democrazia. Questa non può essere più
sufficientemente caratterizzata come “governo dal basso” contro “governo
dall’alto”, o governo della maggioranza e simili. Non solo si deve insistere
sull’essenzialità del rispetto delle minoranze, ma fondarne il concetto sull’esigenza fondamentale del rispetto del
singolo. Ossia democrazia dovrà
essere intesa come quel regime in cui viene reso impossibile a ognuno l’agire
su altri se non in termini di persuasione; o. definizioni equivalenti che
fanno meglio vedere la virtualità della prima forma, regime in cui ogni soggetto viene considerato come soggetto di
persuasione, cioè come persona o regime in cui ogni singolo deve potersi
considerare anche come fine e nessuno come unico fine dell’intero processo
sociale. Anche la riforma economica deve essere pensata e attuata, nei suoi
scopi come nei suoi metodi, in relazione a questa fondamentale definizione.
Se a fondamento dunque
dei totalitarismi non sta malvagità di uomini o debolezza di classi ma un’idea dell’uomo, opporsi a essi sarà
soltanto possibile rivendicando nell’uomo
un principio spirituale indipendente
dalla società (solo così l’uomo individuale non sarà più l’uomo di una società, ma sarà per sé - persona - e costituirà proprio come uomo individuo il fine
ultimo dell’ordinamento sociale nella linea democratico-personalistica).
Affermando in una parola l’idea
cristiana dell’uomo.
Ciò porterebbe pure a
un problema filosofico – intimo compenetrarsi oggi di filosofia e di politica
perché la crisi politica attuale è l’espressione di una crisi metafisica. Il
tema fondamentale della problematica filosofica di oggi è quello della libertà
dell’uomo – e se il Dio trascendente potrà essere riaffermato sarà unicamente
mostrando come l’uomo possa affermarsi libero soltanto nel suo riconoscimento.
Ma rimaniamo nei
termini dell’attualità politica. La sua forma implica che non si possa essere
oggi politicamente cristiani semplicemente rivendicando il diritto di esser
tali o richiedendo la libertà di una confessione positiva o il permanere di
certi istituti morali e giuridici; ma invece affermando la libertà spirituale di ogni individuo. Ciò importa pure in un (eventuale)
partito cristiano la rigorosa non
confessionalità: come difesa dei valori morali e umani del cristianesimo
(la realtà della persona), indipendentemente dall’inquadramento filosofico e
teologico in cui si cerchi di essi la consapevolezza ultima.
C’è un movimento di
convergenza oggi di cristianesimo e di liberalismo. Si è visto come la funzione liberale spetti oggi al
cristianesimo. Ma i cristiani devono abbandonare il presupposto che
l’affermazione dell’uomo cristiano coincida con quella del ritorno all’uomo
medievale: e ai liberali si richiede consapevolezza del nucleo cristiano delle
loro idee.
Mi sono limitato a
riportare brevi passaggi del pensiero di Augusto Del Noce che ritenevo calzanti
alla luce di tutto ciò che è stato detto e ridetto durante questa breve, anche
se intensa, campagna elettorale. Tengo ad evidenziare la necessità di
riproporre al centro della politica del nostro Paese l’ ”idea cristiana di uomo”. Appello rivolto a tutte le forze politiche
in campo, che tra i loro attacchi reciproci, spesso dimenticano il pilastro
della società. “Chi ha orecchie per intendere…”.
E.D.M.
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