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venerdì 21 novembre 2014

Il Paese del formalismo militante

“L’Italia è il Paese che amo”. Sembra assurdo, ma qualcuno ha costruito una carriera politica partendo da queste facili parole. Non so se è capitato a tutti di amare, a me sì: posso garantire che quando si ama, la vita quotidiana è sospinta da una forza incredibile. Cosa c’entra tutto questo con il titolo?

Il nesso è facile. La vita quotidiana di un giovane laureato in Giurisprudenza è costruita interamente sull’amore, cioè su una forza invisibile che lo incoraggia ad andare avanti. In Italia infatti non ha nessun senso pratico, finalizzato all’inserimento professionale, frequentare alcun corso o percorso formativo post lauream. L’unico senso che ha è il formalissimo puro e semplice rilascio di un titolo. Non si impara davvero niente di utile da spendere nell’immaginario e ormai mitico “mondo del lavoro”.
Ammesso che esista, il mondo del lavoro è ad anni luce di distanza dal “pianeta gavetta”, anch’esso, come una più nota Isola, situato immediatamente dopo la “seconda a destra, poi dritto fino al mattino”: non c’è!

È il momento di cambiare. L’Italia tiene al palo della formazione migliaia di talenti, che nascosti sotto il materasso per un decennio non renderanno di più, anzi, renderanno sempre meno. Ecco le riforme da fare: eliminare odiosi percorsi a ostacoli (scuole di specializzazione, tirocini, praticantati) e rendere accessibile il lavoro subito; includere la pratica obbligatoria all’Università; di conseguenza eliminare gli esami di Stato. Altro che “Atto Lavori” (Jobs Act).
Tutto questo si collega con una visione politica della società, per certi versi intrinseca alla storia dell’Occidente. Alla base di tutto c’è una concezione diversa dello “stato di natura”, della situazione in cui versano gli Uomini prima di costruire uno Stato giuridico. Se è presupposto uno stato di natura in cui gli uomini sono “lupi” (S. Agostino, Hobbes) gli uni degli altri, è necessario uno Stato giuridico che autoritativamente dica cosa fare, selezioni, agisca (tramite gli ordini professionali) per legalizzare la lotta omicida, trasformandola in ordinata e legittima prevaricazione del più forte (in termini di titoli). L’altra concezione di stato di natura è diametralmente opposta (S. Tommaso, Locke): qui si presuppone che agli esseri umani piace interagire per il bene di ciascuno, ed entrando in contatto, “convengano” (covenant) uno Stato giuridico per prosperare tutti.

Si potrebbe dunque affermare che una certa visione possa essere chiamata di destra, e l’altra, di sinistra. Nota: entrambe queste tensioni possono coesistere in un raccoglitore politico, ovunque esso sia collocato nella destra e nella sinistra parlamentarie. Le nostre categorie sono tensioni filosofiche intrinseche all’uomo politico e al legislatore. Secondo me, la prima ha caratterizzato la passata evoluzione (dagli anni ’20 del secolo scorso ad oggi) delle “LIBERE” (!?) professioni in Italia. È forse il momento che la seconda impostazione prevalga; e che gli ordini professionali restino enti di garanzia e tutela: nulla più.

                                                                                                              P. B. 

lunedì 10 novembre 2014

Bioetica laica e bioetica cattolica

Vorrei porre l’attenzione su di un tema particolarmente delicato ma quasi abbandonato da una società a solidarietà immatura, per non dire fortemente carente, soprattutto nei confronti dei soggetti deboli quali il nascituro concepito. Davanti il progredire della tecnica, l’osservatore, specialmente quello cattolico, sembra assopito dai fumi di finta libertà intrinseca al dominio del proprio corpo. L’uomo si considera centro di se stesso, non figlio di un unico Padre, come noi cristiani crediamo. Le parole che scriverò non sono rivestite da presunzione di completezza, l’argomento è fin troppo delicato e complesso; vogliono soltanto presentare un monito e un tentativo di risveglio del nostro io cosciente.

Il legislatore[1] e la giurisprudenza di riferimento sembrano avvalorare l’idea di un sistema costituzionalmente orientato nella direzione di una preminente necessità di protezione della salute della donna, senza considerare pienamente la figura del nascituro concepito. La protezione della donna diventa bene supremo dinanzi al quale, almeno de iure condito, ogni altro bene, anche il diritto alla vita o, ove lo si ammetta, anche alla non vita se non sana, sembra essere costretto a cedere il passo, giusto o sbagliato che possa apparire. Proprio in senso contrario all’antico brocardo primum vivere, deinde filosofari. Si manifesta quindi la tensione tra due opposti paradigmi: quello della bioetica laica, consistente nel «principio della qualità della vita» e quello della bioetica cattolica, consistente, invece, nel «principio della sacralità della vita». Entrambi, però, da potersi considerare come giusti limiti al progresso tecnico-scientifico[2]. In una simile prospettiva, la bioetica sarebbe da considerare come strumento di individuazione di giusti limiti al «progresso tecnico-scientifico» ed in conseguenza della crisi di morali assolute, manifestatasi in maniera devastante con il movimento nazista e con i tragici eventi ad esso conseguenti che hanno segnato la fine dell’età dell’innocenza della scienza, venendo messa in discussione la sua auctoritas[3].

La problematica dei diritti umani non è tanto più quella di giustificarli, quanto, quella di proteggerli, una questione non filosofica, ma politica[4]. Appare evidente come l’art. 1 c.c., benché da intendersi norma fondamentale in materia di tutela della persona e del concepito, non sembra, tuttavia, essere sufficiente al fine di coordinare la tutela della soggettività giuridica con quella della persona. Sembra esservi disomogeneità tra il concetto di soggetto di diritto e quello di persona, cui si rivolge la nostra Costituzione e la Convenzione dei diritti dell’uomo. Persona sembra essere considerata l’essere naturale, meglio definita dalla filosofia come centro di relazioni, che è necessariamente anche soggetto di diritti per l’ordinamento. Il concetto di soggetto di diritto e quello di persona umana sono ben distinti, non omogenei e aventi diversi riferimenti normativi, risultando più ampia la protezione della persona.

Quello di persona è un concetto che preesiste all’ordine giuridico che, pertanto, non la determina e non è neppure in grado di porre limiti alla protezione di essa. Si spiega meglio, in tal senso, l’incipit dell’art. 1, comma 1, della legge sulla interruzione di gravidanza[5]: «lo Stato tutela la vita umana dal suo inizio». La legge sembra prescindere da una personificazione del vivente. È assicurata tutela al nascituro a prescindere dal suo essere persona, almeno come tradizionalmente intesa. Di conseguenza vi è vita nell’embrione, vi è vita nel feto. L’unico limite tollerabile alla protezione della vita del nascituro è la tutela della salute della donna, essere naturale non in divenire, se si preferisce, persona fattasi.

Questa situazione giuridica soggettiva più favorevole al nascituro, in termini di estensione della tutela della persona, rappresenta, forse, la vera novità della l. 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita. L’art. 1 della citata legge «assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito». Nonostante la dizione usata dal legislatore sia oscura, sembra, tuttavia, chiaro il riferimento al diritto alla vita e alla dignità del nascituro, potendosi giustamente discutere addirittura sulla possibile estensione del diritto alla vita sino a ricomprendere anche il diritto a nascere sani. Nonostante alcuni autori, di dubbia derivazione politica, abbiano affermato che tutelando il nascituro «si scorge la volontà di imporre un modello di gestione del corpo della donna, sottratto alla libera gestione della persona interessata», ci si chiede se sia in atto un parziale mutamento della concezione stessa dei diritti fondamentali - con specifico riferimento ai diritti umani -  tradizionalmente intesi come «diritti universali ed inalienabili a cui ogni individuo può appellarsi per il fatto che, nascendo, arriva nel mondo come membro dell’umanità».

Sembra dunque trovarsi una crisi bioetica del diritto, nel senso che sia la scienza sia l’affermazione dei diritti umani abdichino alla loro funzione di giusti limiti al potere della tecnica. Una risposta, seppure debole e parziale, è stata data dalla l. n. 40 del 2004 invitando ad essere cauti e prudenti nel trattare l’embrione, non dovendo essere considerato come nulla. Questa potrebbe essere la linea interpretativa da percorrere in materia, cercando di escludere pericolosi eccessi o, ancora peggio, strumentalizzazioni sterili e superficiali. L’indagine deve essere ricondotta anche e necessariamente sui doveri, specialmente in ambito familiare, di preservare l’integrità, di garantire la nascita, la crescita, di proteggere la salute del nascituro. «Bisogni ed interessi», questi, scrive Giorgio Oppo[6], «attuali di quella entità vivente che è il feto a prescindere dalla sua qualificazione come persona». L’autore evidenzia come oggi ci si trovi di fronte al declino del soggetto ed all’ascesa della persona, nel senso che «il progressivo passaggio dei diritti umani dall’ordine sociale all’ordine statuale, può essere descritto come ascesa della persona rispetto al soggetto; ma è anche ascesa dello stesso soggetto, da una condizione di soggezione a una condizione di sempre più centralità nell’ordine giuridico. Un declino è quindi configurabile solo come riduzione di una posizione di prevalenza della nozione e della realtà giuridica del soggetto rispetto alla nozione e alla realtà della persona, non come perdita di sostanziale giuridicità».

Tutto ciò già accadeva nell’antico diritto romano, del quale sorprende la modernità: chi è capace, anche prima della nascita, è da considerare a tutti gli effetti persona. Punto di forza del diritto romano classico e giustinianeo era la non elaborazione di concetti astratti, se non quando fossero estremamente necessari. Già dall’utilizzo della terminologia si evidenzia la sensibilità dei giureconsulti classici in tema di nascituri concepiti. Il termine più usato è qui in utero est, che esprime un concetto estremamente concreto. Accanto a questo viene usato anche partus (può indicare, oltre al partorire, anche il nascituro ed il nato) per sottolineare la continuità tra il nascituro e il nato attraverso l’atto del partorire. Il termine fetus non è usato dai giuristi in riferimento all’uomo, ma soltanto per gli animali[7]. La Costituzione italiana, all’art. 32, in riferimento al fondamentale diritto alla salute, usa il concetto giuridico, perfettamente adeguato alla rerum natura, di individuo. Con ciò viene implicitamente affermata, al di sopra di ogni discussione positivistica, la titolarità di diritti di ogni individuo umano esistente, anche concepito. Nonostante in Italia sia prevalso l’individualismo, esso sembra venir affievolito dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale italiana a partire dal 1997. Il diritto alla vita dell’individuo deve essere integrato nel diritto alla vita del popolo: un diritto alla vita inteso in modo totale. La via inizia concettualmente nel rapporto tra individuo e collettività indicata dal giurista Alfeno Varo, alla fine dell’età repubblicana; la via si sviluppa grazie al favore per il nascituro precisato da Ulpiano, Paolo, Marciano; la via conduce all’aumento della cittadinanza da Caracalla a Giustiniano.Non vanno dimenticati, oggi, i problemi dello status (ad es. la cittadinanza dei nuovi nati, l’adozione dei concepiti), così come quello degli alimenti.

Quanto alla convergenza dei sistemi giuridici appare utile ricordare la discussione tra Rabbi Jehudà il patriarca e l’imperatore Antonino (forse Marco Aurelio) che si trova nel Talmud[8]: «Antonino ha chiesto a Rabbi: ”da quando viene introdotta l’anima nell’uomo, dall’ora del concepimento o dall’ora della formazione [dell’embrione]?”. Gli rispose: “dall’ora della formazione”. Gli disse [Antonino a Rabbi]: “è mai possibile che un pezzo di carne stia tre giorni senza sale, senza andare a male? Certo deve essere dall’ora del concepimento [lett. la visitazione]”. Ha detto Rabbi:”questo mi ha insegnato Antonino e vi è un passo biblico che lo conferma, come è detto: Mi hai donato vita e mi hai usato misericordia e la tua visitazione conservò il mio spirito”».
Questo rispetto per l’individuo, in cui convergono l’Ebreo e il Romano, si scontra con l’odierno individualismo del più forte che minaccia la crescita di ogni popolo.


                                                                                                      E. D. M.






[1] L. 194/1978 sull’aborto e L. 40/2004 sulla riproduzione assistita.
[2] Limiti sui quali si è iniziato a discutere seriamente durante il Processo di Norimberga con le sue tragiche e drammatiche rilevazioni.
[3] F. Rinaldi, Relazione del 5.4.2013 presso Università degli Studi di Cassino nell’ambito di un seminario svolto per le attività del Dottorato in Diritti fondamentali.
[4] N. Bobbio, Sul fondamento dei diritti dell’uomo, in L’età dei diritti, Torino, 1990, p. 52 ss.
[5] L. n. 194/1978
[6] G. Oppo, L’inizio della vita umana, in Riv. dir.civ., 1982, p. 504
[7] P. Catalano, Diritto, soggetti, oggetti, in Iuris Vincula, Napoli, 200, p. 98 ss.
[8] T.B. Sanhedrin 91 a. Stessa questione posto dai padri della Chiesa tra Tertulliano e Sant’Agostino.

lunedì 6 gennaio 2014

La crisi del mercato nel mondo attuale: alcune riflessioni



La recente crisi economica legata alle note vicende dei mutui subprime ha messo in evidenza le vistose crepe del modello di mercato concorrenziale che si era edificato. La rinuncia della cultura giuridica alla concettualizzazione a priori, unita alla mera preoccupazione di intervenire esclusivamente a posteriori al fine di rimediare alle storture derivanti dalle disparità di potere contrattuale tra le parti, avevano plasmato un modello di mercato connotato dall’agire libero se non anarchico dell’autonomia privata, che è inesorabilmente precipitato nella faglia transcontinentale dei prodotti finanziari.

La prima conseguenza è stata la deflagrazione del principio formulato dal giudice Brandeis nel celebre libro dei primi anni del secolo scorso “Other’s People Money and How the Bankers Use it”, secondo il quale le informazioni sono il miglior disinfettante del mercato. L’idea è stata che la full disclosure delle informazioni relative agli strumenti finanziari sia, di per sé, il modo migliore per garantire l’efficiente allocazione delle risorse sul mercato dei capitali e per stimolare di conseguenza la creazione di ricchezza.

La storia si è incaricata di dimostrare che anche quell’ottimismo era malriposto. All’indomani della crisi ci si é accorti che quasi tutte le operazioni di cartolarizzazione dei mutui subprime sono avvenute negli Stati Uniti nel pieno rispetto delle leggi federali e che i titoli tossici circolavano accompagnati da documenti informativi accurati e dettagliati. Il vero è che tali documenti non venivano neppure letti o quanto meno non venivano capiti a causa delle loro complessità. Si è osservato che una rigorosa applicazione dell’analisi dei costi - benefici rende quanto meno dubbia la vantaggiosità di un’adeguata verifica delle informazioni: il costo per comprendere appieno le informazioni sembra eccedere il guadagno ottenuto.
La mistica di un’informazione ora sovrabbondante ora eccessivamente costosa si è tradotta in una burocratizzazione inefficiente del rapporto tra le parti. Si è raggiunto pertanto non una asimmetria dell’informazione ma una sorta di simmetria della disinformazione: la gran parte degli operatori che avevano negoziato i titoli tossici risultavano a loro volta acquirenti del tutto convinti della qualità dell’investimento.
Di conseguenza, la crisi del mercato ha evidenziato le deficienze di una libertà esercitata al di fuori di direttrici fissate dal legislatore.

Gli elementi cui attingere la soluzione si devono cogliere altrove, trascendendo la pura logica del mercato concorrenziale e ponendo mente alla funzionalizzazione dell’agire del singolo ad un interesse pubblico generale, che mira nuovamente alla regolazione del mercato e non si accontenta della regolazione nel mercato. Un mercato in senso non economicistico, come ordo naturalis, ma in senso giuridico-costruttivistico, come ordo legalis, conformato cioè alle regole del diritto positivo promosse dall’intervento pubblico correttivo.

La proposta che si vuole evidenziare non è quella di dismettere l’attuale modello di mercato invalso in Europa, bensì di correggerlo e rinforzarlo.
Una via potrebbe essere rintracciata nella Dottrina Sociale della Chiesa ed in particolare nei principi di solidarietà, libertà ed eguaglianza, che rappresentano, al di là della loro specifica condivisibilità, una prospettiva di speranza e uno stimolo quanto meno al miglioramento del modello di mercato esistente.
In un tale quadro, le parole di Papa Francesco[1] ci donano quella speranza, ricca di gioia, di cui l’uomo è affamato. Il Pontefice riconosce e plaude i successi che contribuiscono al benessere delle persone, per esempio nell’ambito sanitario, educativo e comunicativo, ma allo stesso tempo evidenzia che “non si può dimenticare che la maggior parte degli uomini e delle donne del nostro tempo vivono una quotidiana precarietà, con conseguenze funeste. Aumentano alcune patologie. Il timore, la disperazione si impadroniscono del cuore di numerose persone, persino nei paesi cosiddetti ricchi. La gioia di vivere frequentemente  si spegne, crescono la mancanza di rispetto e la violenza, l’iniquità diventa sempre più evidente.
Bisogna lottare per vivere e, spesso, per vivere con poca dignità.
Così come il comandamento non uccidere pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire no a un’economia dell’esclusione e delle iniquità. Questa economia uccide.
Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare”.
Si è dato inizio alla cultura dello scarto che, addirittura, viene promossa. Gli esclusi non sono sfruttati ma rifiuti, avanzi.

Una delle cause di questa situazione si trova nella relazione che si è stabilita con il denaro, poiché si accetta pacificamente il suo predominio sulle nostre società.
La  crisi finanziaria che attraversiamo ci fa dimenticare che alla sua origine vi è una profonda crisi antropologica: la negazione del primato dell’essere umano!
Abbiamo creato nuovi idoli. L’adorazione del vitello d’oro[2] ha trovato una nuova e spietata versione nel feticismo del denaro e nella dittatura di un’economia senza volto e senza uno scopo veramente umano.
Dietro questo atteggiamento si nascondono il rifiuto dell’etica e il rifiuto di Dio. All’etica si guarda di solito con un certo disprezzo. La si avverte come una minaccia, poiché condanna la manipolazione e la degradazione della persona. L’etica rimanda a un Dio che attende una risposta impegnativa, che si pone al di fuori delle categorie del mercato. Per queste, se assolutizzate, Dio è incontrollabile, non manipolabile, persino pericoloso, in quanto chiama l’essere umano alla sua piena realizzazione e all’indipendenza da qualunque tipo di schiavitù.
Il denaro deve servire e non governare!”.
I meccanismi dell’economia attuale promuovono un’esasperazione del consumo, ma risulta che il consumismo sfrenato, unito all’iniquità, danneggia doppiamente il tessuto sociale. In tal modo la disparità sociale genererà, prima o poi, una violenta reazione la cui risoluzione sarà alquanto complessa.
Riflettiamoci su.


                                                                                                  E.D.M


[1] Francesco, Evangelii Gaudium, Esortazione apostolica sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale, cap. 2
[2] Es. 32, 1-35

venerdì 23 agosto 2013

Sull'articolo 1 della Costituzione


Articolo 1 della Costituzione:

“(1)L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. (2)La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

Per un grande giurista italiano, Costantino Mortati, questa disposizione sarebbe la supernorma costituzionale, a cui si riconducono tutti i principi contenuti nella Carta. Sul lavoro, sulla democrazia, sull’Italia stessa, credo ci sia pochissimo da aggiungere a quanto già detto da tanti.

Pur non essendo molto originale, mi permetto di proporre una riflessione sui “limiti” e sulle “forme” che la Costituzione impone al popolo di seguire nell’esercizio della sovranità.

Curiosità: il primo articolo è pieno di doveri, non di diritti. Questa frase forse è mendace, ma solo perché qualunque principio si traduce in diritto per qualcuno, e dovere per altri. Ma certamente il rispetto di quelle forme è un chiaro avvertimento pronunciato con la voce di Sordi alla moltitudine italica in bianco e nero: “Popolo! Tu vuoi governare? Vuoi essere sovrano? E allora rispetta l’ordine costituito, brutto popolo che non sei altro!”. Insomma, è come un intimo richiamo che il popolo rivolge a se stesso (oltre ad essere dal punto di vista giuridico la base del diritto italiano stesso). Tant’è che Calamandrei dirà: “Le dittature sorgono non dai governi che governano e durano, ma dall'impossibilità di governare dei governi democratici”. Dei mille significati che possiamo attribuire a questa frase, ne propongo uno: se non rispetti le procedure non governi, se non governi non duri, se non duri cedi il fianco all’antidemocrazia.

Potremmo citarne tanti di limiti e forme di esercizio della sovranità (forma di stato e di governo, rispetto del procedimento legislativo, del ruolo della magistratura, del ruolo del Parlamento e del governo, delle attribuzioni tra poteri dello Stato, delle disposizioni fiscali e tributarie, esercizio legittimo del potere costituito in tutte le sue forme, scongiurare a costo della carriera personale l’abuso di potere, riferirsi solo ed esclusivamente al diritto statuale per risolvere le proprie istanze ecc… ).

Ma torniamo alla governabilità. Il punto centrato da Calamandrei è sconvolgentemente verificabile in Italia. Berlusconi è stato accusato di regime, di instaurare una “larvata dittatura” sempre di Calamandreiana memoria, e qui non ci interessa approfondire la vicenda. Ma cosa accade quando in Italia si susseguono i Governi, quando movimenti di individui si muovono movimentando idee, desideri, passioni, voglie e infine istinti della plebe? Sì, voglio giocare con le parole. Accade che si origina un movimento verso il basso, come con i cicloni o meglio con lo sciacquone: movimento che poi è sinonimo di moto, che in italiano significa anche insurrezione, sommossa, tumulto. Una quasi rivoluzione.

Insomma, qualche buffone potrebbe convincerci con una “larvata rivoluzione” tanto quanto (forse, lo vedranno i posteri) il berlusconismo di inizio secolo ha giocato le sue carte in una “larvata dittatura”. 

Resta un aspetto da rilevare, lasciando ai commenti l’approfondimento dei temi solo lambiti in questo contributo, e scusandomi in anticipo per l’eventuale poca sensibilità utilizzata; se è valido in politica il c.d. principio di castrazione, secondo cui una libertà è esercitabile se da essa discendono delle precise responsabilità ben chiare a chi la esercita, potrebbe essere vero che la sovranità è esercitata dal popolo esclusivamente se il popolo è consapevole delle forme e dei limiti? Insomma, il popolo che vota e partecipa, ha un riscontro dell’esercizio della sovranità, oppure è come un povero eunuco?

Pensiamoci.

                                                                                              P.B.

martedì 7 maggio 2013

“Società civile” e “Chiesa-popolo di Dio”



"Società civile” e “Chiesa-popolo di Dio” sono due concetti alla base di una visione partecipativa ed in senso lato democratica delle due dimensioni dell’Uomo occidentale. Ma davvero esistono nell’esperienza categorie così nettamente individuabili all’interno dei rispettivi ambiti?

Immaginiamo uno Stato-istituzione senza “società civile”; oppure una Chiesa-istituzione senza il  “popolo di Dio”: gusci vuoti. Anzi, per la verità, gusci artificiali vuoti.

In diversi ambienti, tanto civili quanto ecclesiastici, si verifica il solito abuso linguistico; si avverte quasi una contrapposizione tra queste astrazioni, queste categorie generiche, e una realtà istituzionale separabile. Si sente parlare di “noi della società civile” contro “loro della politica”, oppure “noi Chiesa comunità” contro una “Chiesa/clero/istituzione”. La parte sugli aspetti ecclesiastici è consultabile su http://fuciromasapienza.myblog.it/
Per quanto riguarda lo Stato, i politologi si esercitano da secoli sulla distinzione tra Stato-comunità e Stato-istituzione. Il diritto costituzionale, più rigoroso, supera queste questioni esteriori considerando lo Stato come ordinamento giuridico.

Dal punto di vista concreto e reale, fuori dalle elucubrazioni intellettuali, è del tutto banale la distinzione tra “società civile” e “politica” o Stato. Tanto perché in democrazia (rappresentativa o diretta) la società civile è la politica (partecipando a partiti e votando, oppure solo votando nel caso della diretta), quanto perché una politica che prescinde dalla società civile è destinata a non sopravvivere ed essere sostituita. Ma per la prima ragione, ad essere sostituita, in ultima analisi, è una parte della società civile, quella che si è impegnata nelle res publicae.

Quindi a fallire, da un punto di vista storico, è una generazione, un popolo di una determinata epoca: tutti gli Italiani, tutta la società, sono il prodotto della sua evoluzione (ovvero involuzione) culturale e sociale. Se i politici di fine ‘900 sono considerati “ladri”, è vero che in buona parte delle case, nel XX secolo e nei primi del XXI, si evade il canone RAI; oppure in buona parte degli esercizi commerciali non si adempiono oneri fiscali; etcc … . Insomma, buona parte dei politici è la rappresentazione di buona parte della società, perché i politici sono la società.
La soluzione? Dare una chance alla generazione successiva.



                                                                                            P. B.