martedì 4 giugno 2013

Se...

Se ritenere che non servano riforme costituzionali vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che non servano perchè forse il problema non sono le regole del gioco ma i giocatori vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che cambiare le istituzioni non serva a nulla se prima non migliora un pò chi deve abitarle vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che difendere l'attuale Costituzione non sia la reazionaria difesa di un mito ma un invito alla sua piena applicazione vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che la Costituzione italiana dia tutti gli strumenti per realizzare una buona democrazia rappresentativa ma che al momento quegli strumenti chiamati "corpi intermedi" siano alla deriva vuol dire essere un conservatore sì, io lo sono.
Se ritenere che la vera questione sia nel ridare senso e vita ai corpi intermedi, partiti su tutti, vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che la nostra Costituzione non sia vecchia dopo soli sessantacinque anni vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che la Gran Bretagna e gli USA siano ancora delle democrazie valide pur andando avanti con la stessa impalcatura costituzionale da centinaia di anni vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che a differenza della Gran Bretagna e degli USA le criticità nascano dalla scadente qualità della classe dirigente italiana, specialmente politica, che si riverbera in una debolezza degli enti intermedi vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono. 
Se ritenere che tra i padri costituenti vi siano state alcune delle migliori, lucide e lungimiranti menti della storia recente italiana vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che coloro che pretendono di innovare la Costituzione non siano all'altezza dei padri costituenti nè di ciò da loro prodotto vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che per cambiare le fondamenta della Costituzione occorra un'Assemblea Costituente e che una semplice commissione sia illegittima vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che ogni costituzione non rappresenti solo un mero eleaborato teorico ma anche il carattere, la storia e lo spirito di un popolo vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che la costituzione americana rispecchi la caratteristica tensione alla libertà e alla costruzione della felicita del popolo americano vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che la costituzione inglese non scritta ma rispettata rispecchi il noto pragmatismo del popolo inglese vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che le cinque repubbliche attraversate dai francesi rispecchino la loro storica irrequietezza vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che sì, la Francia è passata dalla quarta repubblica parlamentare alla quinta presidenziale, ma chi l'ha rivoltata è stato un certo Charles De Gaulle e non Quagliariello vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono. 
Se ritenere che la costituzione tedesca rispecchi anche la loro secolare esperienza federale vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che non a caso i padri costituenti abbiano scelto un regime parlamentare per gli italiani - popolo dei guelfi e dei ghibellini, dei campanili, degli scontri fratricidi, delle mille varietà - proprio perchè gli italiani si debbano "parlare" in un luogo che rappresenti e unisca le loro diversità per crescere insieme, se ciò vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che i padri costituenti avessero ben presente quanto sia facile per gli italiani nei momenti di difficoltà affidarsi inopinatamente all' "uomo della Provvidenza" vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che veniamo da anni in cui un solo uomo (in questo caso B., ma fosse stato chiunque altro) ha avuto una maggioranza parlamentare amplissima e dunque una capacità di azione politica piena ma che comunque non ha fatto nulla vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono. 
Se ritenere che in un paese in cui il sistema dell'informazione e della comunicazione, a prescindere dalle posizioni politiche, sia deformato e pregiudichi potenzialmente una corretta formazione dell'opinione pubblica vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che: "Oggi ho visto un concittadino uscire dalla banca piangendo. Gridava: non ce la faccio più a vivere con questa Costituzione!" (cit. @_zolf, twitter) vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che la priorità del popolo italiano al momento non sia la riforma costituzionale, ma la crisi economica, il lavoro, la disoccupazione giovanile, gli investimenti, un dibattito serio sui trattati europei stipulati, un sistema dell'istruzione carente, un sistema universitario martoriato, il dissesto idrogeologico, una migliore sanità ecc... vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono. 
Se ritenere che semplicemente non sia il momento opportuno per dilettarsi a dissertare sui più svariati sistemi politici ma che comunque se ne potrà parlare tranquillamente a tempo debito vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che con la stessa velocità con cui ci si occupa di formare una commissione per discutere e modificare la Costituzione si affrontasserero altre incombenze vicine al sentire del popolo italiano vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che una nuova legge elettorale che dia ai cittadini la possibilità di eleggere i candidati sia molto più urgente di un nuovo sistema istituzionale vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che al momento i livelli di demagogia e leaderismo sterile non consentano qualsivoglia svolta in senso presidenziale dello Stato vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che il sistema democratico rappresentativo sia più impegantivo perchè fondato sulla fiducia tra rappresentato e rappresentante e che sia proprio questa fiducia a mancare oggi, ma che comunque valga la pena ritentare e perseverare vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.

Se essere un conservatore vuol dire essere un custode, sì, io lo sono. Perchè si custodisce, se non per il futuro?

                                                                                            V. C. 

martedì 7 maggio 2013

“Società civile” e “Chiesa-popolo di Dio”



"Società civile” e “Chiesa-popolo di Dio” sono due concetti alla base di una visione partecipativa ed in senso lato democratica delle due dimensioni dell’Uomo occidentale. Ma davvero esistono nell’esperienza categorie così nettamente individuabili all’interno dei rispettivi ambiti?

Immaginiamo uno Stato-istituzione senza “società civile”; oppure una Chiesa-istituzione senza il  “popolo di Dio”: gusci vuoti. Anzi, per la verità, gusci artificiali vuoti.

In diversi ambienti, tanto civili quanto ecclesiastici, si verifica il solito abuso linguistico; si avverte quasi una contrapposizione tra queste astrazioni, queste categorie generiche, e una realtà istituzionale separabile. Si sente parlare di “noi della società civile” contro “loro della politica”, oppure “noi Chiesa comunità” contro una “Chiesa/clero/istituzione”. La parte sugli aspetti ecclesiastici è consultabile su http://fuciromasapienza.myblog.it/
Per quanto riguarda lo Stato, i politologi si esercitano da secoli sulla distinzione tra Stato-comunità e Stato-istituzione. Il diritto costituzionale, più rigoroso, supera queste questioni esteriori considerando lo Stato come ordinamento giuridico.

Dal punto di vista concreto e reale, fuori dalle elucubrazioni intellettuali, è del tutto banale la distinzione tra “società civile” e “politica” o Stato. Tanto perché in democrazia (rappresentativa o diretta) la società civile è la politica (partecipando a partiti e votando, oppure solo votando nel caso della diretta), quanto perché una politica che prescinde dalla società civile è destinata a non sopravvivere ed essere sostituita. Ma per la prima ragione, ad essere sostituita, in ultima analisi, è una parte della società civile, quella che si è impegnata nelle res publicae.

Quindi a fallire, da un punto di vista storico, è una generazione, un popolo di una determinata epoca: tutti gli Italiani, tutta la società, sono il prodotto della sua evoluzione (ovvero involuzione) culturale e sociale. Se i politici di fine ‘900 sono considerati “ladri”, è vero che in buona parte delle case, nel XX secolo e nei primi del XXI, si evade il canone RAI; oppure in buona parte degli esercizi commerciali non si adempiono oneri fiscali; etcc … . Insomma, buona parte dei politici è la rappresentazione di buona parte della società, perché i politici sono la società.
La soluzione? Dare una chance alla generazione successiva.



                                                                                            P. B.

giovedì 2 maggio 2013

Tutti per il popolo, nessuno per il popolo: cos’è il popolo





Il mondo si muove, seppur senza avere una meta, ma si muove. Anche l’Italia si muove, in un continuo, inesorabile declino di disperazione, rabbia e impotenza. C’è però un punto fermo, fermissimo, che non si sposta nemmeno di un millimetro. Lo stallo politico. E’ proprio questo il massimo della contraddizione della situazione odierna: lo stallo, mentre tutto precipita.

Nonostante ciò, da tutte le parti ogni giorno si sentono proferire parole d’urgenza e necessità: urge fare qualcosa per il paese, urge aiutare immediatamente chi è in difficoltà, è necessario dare ossigeno a chi non ne ha, è necessario stabilire priorità e relative soluzioni. Tutti per il paese dunque. Tutti per il popolo italiano, dunque. In realtà nessuno per il paese, tanto meno per il popolo. La menzogna dell’attesa per la ricerca della migliore strada da intraprendere nasconde malamente l’olezzo del conflitto degli interessi di parte, dei vantaggi particolari, delle vanità personali. L’orchestra suona, mentre il Titanic affonda.

Certo, è impossibile non constatare l’oggettiva complessità del puzzle politico dopo il bizzarro risultato elettorale. Ma sicuramente più grave è la cecità delle componenti politiche verso lo stato comatoso in cui riversa la nazione. Cecità provocata da anni e anni di progressivo distacco della classe dirigente dalla vita del paese e del suo popolo. Se tale distacco può esser derivato, almeno all’inizio del processo, da cause non del tutto volute, si è poi perseverati nel volgere lo sguardo dall’altra parte. Intenzionalmente.

Il costante richiamo alla distanza tra governanti e “popolo” il più delle volte è inteso in chiave populistico-demagogica, alla “grillina” diremmo oggi, cioè pochi brutti e cattivi da una parte e tanti buoni e virtuosi dall’altra. In realtà la questione è di metodo, precisamente di metodo della partecipazione alla vita civile. E’ qui che i concetti di “popolare” e “popolarismo” possono rappresentare un’alternativa per uscire dal pantano. Nella prospettiva sturziana il popolo non è né quella “entità” di cui il leader è convinto di incarnare in toto l’essenza (da qui il leaderismo sterile che viviamo oggi nel nostro paese), né è una nozione di popolo organicistica. Prima di tutto c’è la persona, che giudica, agisce e sceglie, mentre i concetti generali di "stato", "società", "classe" non configurano realtà diverse e “altre” rispetto alle parti che li compongono. Le parti, cioè le persone, sono prioritarie ed hanno una valenza superiore rispetto alle aggregazioni complessive, ma allo stesso tempo quest’ultime conincidono ed esistono in quanto somma delle parti. Il fattore principale che rende questa somma uno stato, una società, un popolo è la partecipazione. Ciò vuol dire che le scelte (che vanno prese e perseguite, onde evitare di rimanere sempre in un limbo) devono essere condivise attraverso un vero coinvolgimento del popolo individuando i reali problemi e ricercando le soluzioni.

Il coinvolgimento del popolo, come si è già detto, non corrisponde però alla volontà generale della masse, utopica quanto disfunzionale, in realtà vuol dire formare un gruppo dirigente e specificamente politico che, provenendo da quella civica aggregazione di persone che si è definito “popolo”, possa poi ambire a essere il governo “del popolo, per il popolo”, parafrasando una famosa frase di Abramo Lincoln.
Questa funzione di formazione politica, ma anche civica e culturale, nonché di intermediazione tra la futura classe dirigente e il popolo era (e dovrebbe essere, costituzionalmente) adempiuta da quelle particolari associazioni che sono i partiti. Il loro ruolo era (e ripeto, dovrebbe essere) fondamentale. Facendo riferimento a delle ideologie - o, comunque a delle idee-, questi in passato erano i luoghi prediletti  in cui si pensavano delle scelte, si prendevano delle decisioni confrontandosi,  processi che partivano dal singolo iscritto per coinvolgere poi la sua stessa famiglia, quella piccola comunità che era la sezione di partito fino ad arrivare ai vari livelli istituzionali:  l’assessore, il sindaco, il presidente della Provincia, della Regione, il parlamentare, il componente del governo. Era questa la via percorsa per coinvolgere il popolo nelle responsabilità, in cui quasi sempre erano i più capaci, o comunque riconosciuti tali, ad andare avanti nel perseguimento delle proprie e altrui istanze politiche. Se constatiamo come oggi questa via sia stata chiusa per prendere la “scorciatoia” del rapporto diretto edulcorato tra il leader e le masse, modello che ha scambiato la riflessione con il sensazionalismo degli spot elettorali, possiamo comprendere che se da un lato la partitocrazia chiusa e sterile è da evitare, dall’altro la completa evaporazione dei partiti è stato sicuramente uno dei fattori che ha contribuito alla decadenza socio-politico-economica odierna dell’Italia.

Viviamo insomma in una democrazia senza “demos” ovvero senza popolo, nel più concreto significato greco della parola, cioè “ tutti coloro che partecipano alla vita della polis” (o dello stato, attualizzando).

Proprio in questo senso, don Sturzo, all’epoca della formazione del Partito Popolare Italiano tra il 1918 e il 1919, aveva scelto di denominare il partito come “popolare” e non “del popolo”: sostenere che il proprio partito rappresenti "il popolo" significa escludere tutti coloro che non si riconoscono in quel partito dal popolo, pretendendo di stabilire con parzialità la discriminante tra il “vero popolo” il “non-popolo”. In realtà, il ruolo del partito nel contesto democratico è di strumento di partecipazione proprio per essere “popolare”, cioè non elitario né aristocratico. Solo così il popolo sarà il protagonista legittimo della vita democratica, il soggetto storico valido a riformare la società in cui le personalità passano, per quanto importanti e significative, mentre il metodo resta.

Purtroppo oggi in Italia non si odono le voci del popolo, ma solo il silenzio della distanza.

                                                                                         
                                                                                          V. C.

venerdì 15 marzo 2013

L’approssimarsi della ghigliottina



In una intervista del 1982 di Enzo Biagi nella trasmissione «Questo Secolo» Indro Montanelli ebbe a dire con la sua solita franchezza: «Le democrazie non vengono mai uccise… Le democrazie si suicidano». Faceva riferimento alle sorti della democrazia italiana del 1921-22 e a Mussolini, il quale, sempre secondo il giornalista di Fucecchio, si limitò solamente a seppellirla. Certamente Montanelli non analizza quel contesto da storico puro, né pretende di evidenziarne l’estrema complessità, ma fornisce una visione da perfetto cronista e testimone  di eventi così particolari e decisivi nella storia italiana. Sempre nell’intervista egli osservava come la democrazia di quegli anni si fosse ridotta ad un «grosso carnevale», priva com’era di una stabilità governativa e di forze politiche capaci di comprendere l’effettiva portata delle trasformazioni del primo dopoguerra.

Ora una situazione di evidente ingovernabilità si ripropone anche oggi con tantissime differenze rispetto a quel contesto. Il  risultato delle recenti elezioni legislative  evidenzia palesemente come il «grosso carnevale» dell’odierna politica italiana  abbia raggiunto dei livelli abbastanza drammatici. Ancor di più, esso risalta il fallimento di un ventennio e dimostra come in realtà il Paese non si sia ancora ripreso dal crollo della cosiddetta «prima Repubblica», dalla scomparsa dei partiti e delle culture politiche che hanno fondato la Repubblica. Da un sistema ormai logoro ma riformabile come quello dei partiti si è passati a quello dei partiti di plastica o azienda, ad personam, ovvero dei contenitori che raccolgono di tutto e di più, il cui unico criterio di appartenenza è misurato dalla convenienza che elargisce il capo azienda di turno (anche se uno in particolare svetta un po’ su tutti….). Per il  bilancio di questo salto «qualitativo» non c’è bisogno di aspettare l’«ardua sentenza» dei posteri, esso è già sotto gli occhi di tutti: un Paese asfissiato da un ingente debito pubblico, dai disagi sociali come la precarietà del lavoro giovanile e non solo, incapace di affrontare le sfide che impone il mondo globalizzato; un Paese senza prospettive in cui ogni governo si sente in dovere di approvare  una riforma  della scuola e dell’università che puntualmente smentisce la precedente senza nessun tipo di organica progettualità e senza nessun risultato effettivo, visto il progressivo peggioramento dei servizi offerti. Un Paese che si è ridotto a selezionare la propria classe dirigente nel migliore dei casi nei Cda di qualche azienda e o banca pubblica o privata (in Italia la differenza si percepisce poco), oppure in qualche palco televisivo, o nelle varie feste in  case e ville private (si potrebbe continuare con l’elenco ma, per decenza, non ci sembra il caso).


Negli anni 92-93-94’ si parlava di abbattere la «partitocrazia», accusata di impedire una trasparenza nella scelta dell’esecutivo: «E’ giusto che siano i cittadini a decidere chi governa e non i partiti». Bene, è evidente che questo risultato non sia stato propriamente raggiunto dato che dopo vent’anni gli italiani hanno votato per ben tre volte con un sistema elettorale, il porcellum, che non garantisce né la governabilità, tanto meno la rappresentanza. Infatti, in sette anni ci sono state tre legislature,  tre elezioni, di cui ben due anticipate, con tre governi (Prodi, Berlusconi, Monti) tutti caduti prima della naturale scadenza. Per quanto riguarda la rappresentanza, invece, l’Italia è l’unica grande democrazia occidentale in cui il cittadino non vota direttamente il proprio rappresentante in parlamento, ma si limita ad approvare un listino bloccato, messo in piedi dai vertici dei contenitori, nel migliore dei casi, o dal capo azienda di turno (e c’è sempre uno che spicca su tutti…). Ancora più grave, l’attuale sistema di voto permette ad una coalizione che non raggiunge nemmeno il 30% dei consensi (è il caso delle ultime elezioni) di ottenere il 55% della ripartizione dei seggi  alla Camera dei deputati (l’on. Acerbo aveva osato un po’ di più, al 65%). In otto anni nessuno è riuscito (forse per la mancanza di una effettiva volontà) a cambiare nemmeno un cavillo di questo capolavoro democratico-rappresentativo.


Ora, pare del tutto scontato, ma non giustificato, che nella voglia di liberarsi da questo «grosso carnevale» vi possano essere simpatie per delle  tentazioni quali la tecnocrazia montiana o peggio ancora il populismo qualunquista grillino. D’altronde visto il successo di quest’ultimo, sarebbe auspicabile che le principali forze politiche, in un estremo sussulto di decenza, di decoro e di amore per le istituzioni democratiche e repubblicane, si coalizzassero almeno per un governo di scopo che si occupasse di legge elettorale e delle questioni economiche più urgenti. Tra i vari tentativi di «abboccamento» e di marce nei tribunali tale prospettiva sembra ancora lontana dal concretizzarsi, lasciando un ampio margine di manovra al movimento grillino che, a suo dire, punta al 100% del parlamento.


Forse è meglio così, forse è necessaria una scossa che ridesti una Paese provato come il nostro e  troppo abituato al «carnevale». Sembrano attuali allora le parole di Gobetti nel suo celebre «Elogio della ghigliottina» che rispecchiano il clima  di insofferenza e in un certo senso di delusione nei confronti di una società e di una classe politica all’indomani dell’avvento del fascismo, chiuse nel parassitismo, nelle corporazioni, nei privilegi, nelle urla del non governo, ma aperte al fascino suggestivo di paternalistici miracoli e d’improbabili uomini della provvidenza: «Eppure, siamo sinceri fino in fondo, c’è chi ha atteso ansiosamente che venissero le persecuzioni personali perché dalle sofferenze rinascesse uno spirito, perché nel sacrificio dei suoi sacerdoti questo popolo riconoscesse se stesso. C’è stato in noi, nel nostro opporsi fermo, qualcosa di donchisciottesco. Ma si sentiva pure una disperata religiosità. Non possiamo illuderci di aver salvato la lotta politica: ne abbiamo custodito il simbolo e bisogna sperare (ahimè, con quanto scetticismo) che i tiranni siano tiranni, che la reazione sia reazione, che ci sia chi avrà il coraggio di levare la ghigliottina, che si mantengano le posizioni sino in fondo. Si può valorizzare il regime; si può cercare di ottenere tutti i frutti: chiediamo le frustate perché qualcuno si svegli, chiediamo il boia perché si possa veder chiaro».     

Vedremo.



                                                                                                    V.R.

venerdì 1 marzo 2013

Grill(ett)o



Boom. Exploit. Risultato clamoroso. Successo senza precedenti. E’ manifestata espressamente da tutti la gran sorpresa di trovarsi un MoVimento 5 Stelle primo partito al 25% dopo la due-giorni elettorale. Era imprevedibile, nessuno si sarebbe aspettato qualcosa del genere. Si è andati al di là di ogni previsione, di qualunque sondaggio.


Ne siamo sicuri? Era tutto così imperscrutabile?


No, certamente no, in molti avevano anticipato che il M5S avrebbe raggiunto risultati rilevanti pur presentandosi per la prima volta alle elezioni politiche. Ma altrettanti avevano ridimensionato la questione come non problematica, aggrappandosi al vecchio adagio non ancora chiaramente attribuito a Togliatti o a Nenni: “Piazze piene, urne vuote”.


Ebbene no, per tutti coloro che abbiano posseduto un minimo di senso e cognizione storica ma soprattutto siano riusciti a sentire il “polso” degli italiani e a decifrarne gli umori, questa situazione ha poco di sorprendente. Insomma, si poteva capire che quelle piazze sarebbero state piene e le urne anche. Urne traboccanti. Infatti quelle piazze erano diverse da piazze a noi più familiari; anche se non del tutto inedite nella storia italiana. La differenza sta nei volti e negli occhi degli italiani lì presenti, accorsi non per ascoltare con più o meno approvazione il politico di turno, ma ritrovatisi per veder finalmente incarnarsi su di un palco tutte le loro ansie, tutta la loro rabbia, tutta la loro voglia di rivalsa, tutti i loro bisogni. In Grillo si è visto colui che avrebbe portato alla luce la profondità delle insoddisfazioni del popolo italiano. Grillo rappresenta l’occasione di mettere alle corde una classe dirigente, politica e non, amorfa, incurante per anni della realtà e dei concreti problemi dei cittadini, spessissimo coinvolta in casi di  corruzione disgustosa e insopportabile. La veemenza delle parole di Grillo è, allo stato attuale, la veemenza degli italiani; lo sbraitare e l’agitarsi del corpo di Grillo è lo sbraitare degli italiani; i sogni di Grillo sono le enormi aspettative degli italiani. E Grillo ha fatto il boom.


Sì, perché Grillo, appunto, ha fatto il boom. Diciamoci la verità, la stessa piazza San Giovanni della scorsa settimana testimoniava ciò che avvenuto per tutto il tour elettorale di Grillo: il one man show di tutto il carrozzone è lui. Lui e il suo “dietro le quinte”, Gianroberto Casaleggio, comandante in capo dell’omonima azienda di strategie di marketing per la rete. Per carità, tutti coloro che sono saliti sul palco di turno prima di lui saranno anche più o meno giovani, onesti, dalla faccia pulita, “normali”  (la controprova si può avere solo in parlamento). Ma l’attesa degli astanti era tutta per lui, le piazze distratte e inizialmente sparute si colmavano di persone attente e plaudenti all’apparire di colui che volevano fosse lì, in quel momento per assorbire e sprigionare, fondamentalmente, la loro rabbia.


Sì, alla base di tutto, nonostante i fiumi di belle parole spese su programmi, ricambio generazionale, proposte varie, nuove metodologie politiche ecc…, c’è la rabbia popolare. Giustificata? Dopotutto, sì, concepibile e prevedibile visti gli ultimi vent’anni passati dal Paese e le gravi colpe di cui si è macchiata tutta la classe dirigente. Ma quanto pericolosa e incosciente se incanalata in modo sbagliato? Perché è vero, in Grillo e nel suo movimento ci saranno anche dei pregi, ma si posso trovare molti degli sbagli passati degli italiani.


La mente ritorna a due specifici periodi storici, non per fare fuorvianti paragoni, ma per ricordare esperienze. Il primo è il periodo 1919 – 1924, quello della grande tensione sociale, della crisi dello stato liberale (causata specialmente dalla stessa classe dirigente) sfociato nello svilupparsi del movimento fascista come “soluzione al caos” e nel suo andare al potere esautorando pian piano le istituzioni liberali. Il secondo è quello della fine degli anni ’60 – inizio anni ’70, periodo di grandi rivolgimenti e di fermenti socio-culturali a rischio deriva, riusciti poi ad essere contenuti in un ambito democratico ma che hanno dato vita alla stagione terroristica italiana. Il movimento di Grillo si auto-presenta come un qualcosa di totalmente diverso rispetta al passato, di inedito. In realtà si ripresentano vari errori di quegli anni, magari sotto una luce nuova, con un “lifting”, ma tali rimangono. E qualora non si facesse tesoro degli errori passati, c’è il rischio che diventino nuovi pericoli.  


Emerge chiaramente, più che mai in questi primi giorni post elettorali, che Grillo parte dal presupposto di una visione assolutistica. Tutti, coloro che sostanzialmente hanno partecipato finora alla gestione della res publica sono “morti che camminano” che saranno prontamente (e definitivamente) soppiantati. La diffusa virtù insita nella massa degli italiani, conquistando il potere, sarà capace senza ombra di dubbio di eliminare tutti gli ostacoli che precludono alla realizzazione di un organismo statale finalmente soddisfacente e funzionante. Il successo di Grillo sta anche in questo, nella deresponsabilizzazione e nella finta responsabilizzazione, cioè: gli italiani non sono gli stessi che hanno votato quelli che ora sono per loro zombie, ma invece tutti indistintamente, di colpo, formano un conglomerato di qualità pronto ad assumersi incarichi di qualunque genere, chiunque essi siano, qualsiasi cosa facciano. Al centro di tutto la rete, divinità perfetta detentrice di ogni saggezza e verità nonchè collettore di questa nuova comunità di “cittadini con l’elmetto”. Risalta in tutto ciò il classico (quindi non nuovo…) velleitarismo di origine rousseauiana di sovranità popolare pura, che spesso tanti danni ha fatto trasformandosi in autoritarismo.  Ciò si palesa in nuce nello stesso Movimento 5 Stelle: la partecipazione sembra diffusa, ma non si può nascondere che chi detta la linea sono essenzialmente Grillo, Casaleggio e il misterioso "Staff”. La tanto decantata “democrazia liquida”, il famoso “ognuno vale uno” si perdono nella concentrazione ristretta del potere decisionale nelle mani di pochi. E questo si potrebbe anche capire, ogni struttura di potere necessita di una gerarchia, ma ammetterlo, per chi ha fatto della totale democraticità il proprio baluardo, è troppo difficile.  Da qui l’illusione verso il mezzo, la rete, la fiducia cieca nelle sue possibilità ha un sentore di dittatura del principio d’autorità, autorità detenuta da chi la rete può manipolarla ed usarla a proprio piacimento (ogni riferimento è puramente casuale…).


In qualità di unica fonte di legittimazione, la rete ha anche selezionato i futuri parlamentari. I criteri adottati per la selezione sono stati decisi non si sa bene da chi (la trasparenza…), comunque al centro, si è detto, c’è il curriculum, non inteso solo in senso professionale, ma anche in senso etico-personale. Bene, sicuramente ciò contribuirà ad avere almeno persone oneste in parlamento. Ma come fanno persone che stanno a centinaia di kilometri di distanza attraverso lo schermo di un computer a conoscere l’onestà o meno di una persona? Lo stesso valga per la capacità, che in questo caso deve essere capacità politica, non altro. Di fatto, comunque, pare che ritroveremo nell’istituzione centrale dello stato molte persone per bene, seppur stiano affiorando le prime personalità di rilievo: giovani con totale inesperienza nel ramo, chiamiamolo così, della “gestione delle risorse umane”, la neo-senatrice che non sa nemmeno il numero dei senatori e dei deputati, il neo-senatore che non sa dov’è il senato né come si elegge un presidente della Repubblica, e, dulcis in fundo, quattro arditi provenienti da ambienti neofascisti. Inesperienza? Può essere. Ignoranza di fondo. Anche. Si dirà: ma non è certamente peggio di mignotte, autisti, raccomandati, figli di papà, collusi, maneggioni. No, peggio no. Ma neanche meglio. Grillo garantisce per tutti, la rabbia degli italiani garantisce per Grillo. Chi garantirà tutto il resto? Non ci resta che attendere e vedere il futuro cosa riserverà.


C’è il rischio che alla cattiva politica si sostituisca una ancor più cattiva falsa-politica. In sintesi l’Italia ha un Grilletto puntato alla tempia. Omicidio o suicidio, la fine è comunque la stessa.  

                                                                                                      V.C.