lunedì 6 gennaio 2014

La crisi del mercato nel mondo attuale: alcune riflessioni



La recente crisi economica legata alle note vicende dei mutui subprime ha messo in evidenza le vistose crepe del modello di mercato concorrenziale che si era edificato. La rinuncia della cultura giuridica alla concettualizzazione a priori, unita alla mera preoccupazione di intervenire esclusivamente a posteriori al fine di rimediare alle storture derivanti dalle disparità di potere contrattuale tra le parti, avevano plasmato un modello di mercato connotato dall’agire libero se non anarchico dell’autonomia privata, che è inesorabilmente precipitato nella faglia transcontinentale dei prodotti finanziari.

La prima conseguenza è stata la deflagrazione del principio formulato dal giudice Brandeis nel celebre libro dei primi anni del secolo scorso “Other’s People Money and How the Bankers Use it”, secondo il quale le informazioni sono il miglior disinfettante del mercato. L’idea è stata che la full disclosure delle informazioni relative agli strumenti finanziari sia, di per sé, il modo migliore per garantire l’efficiente allocazione delle risorse sul mercato dei capitali e per stimolare di conseguenza la creazione di ricchezza.

La storia si è incaricata di dimostrare che anche quell’ottimismo era malriposto. All’indomani della crisi ci si é accorti che quasi tutte le operazioni di cartolarizzazione dei mutui subprime sono avvenute negli Stati Uniti nel pieno rispetto delle leggi federali e che i titoli tossici circolavano accompagnati da documenti informativi accurati e dettagliati. Il vero è che tali documenti non venivano neppure letti o quanto meno non venivano capiti a causa delle loro complessità. Si è osservato che una rigorosa applicazione dell’analisi dei costi - benefici rende quanto meno dubbia la vantaggiosità di un’adeguata verifica delle informazioni: il costo per comprendere appieno le informazioni sembra eccedere il guadagno ottenuto.
La mistica di un’informazione ora sovrabbondante ora eccessivamente costosa si è tradotta in una burocratizzazione inefficiente del rapporto tra le parti. Si è raggiunto pertanto non una asimmetria dell’informazione ma una sorta di simmetria della disinformazione: la gran parte degli operatori che avevano negoziato i titoli tossici risultavano a loro volta acquirenti del tutto convinti della qualità dell’investimento.
Di conseguenza, la crisi del mercato ha evidenziato le deficienze di una libertà esercitata al di fuori di direttrici fissate dal legislatore.

Gli elementi cui attingere la soluzione si devono cogliere altrove, trascendendo la pura logica del mercato concorrenziale e ponendo mente alla funzionalizzazione dell’agire del singolo ad un interesse pubblico generale, che mira nuovamente alla regolazione del mercato e non si accontenta della regolazione nel mercato. Un mercato in senso non economicistico, come ordo naturalis, ma in senso giuridico-costruttivistico, come ordo legalis, conformato cioè alle regole del diritto positivo promosse dall’intervento pubblico correttivo.

La proposta che si vuole evidenziare non è quella di dismettere l’attuale modello di mercato invalso in Europa, bensì di correggerlo e rinforzarlo.
Una via potrebbe essere rintracciata nella Dottrina Sociale della Chiesa ed in particolare nei principi di solidarietà, libertà ed eguaglianza, che rappresentano, al di là della loro specifica condivisibilità, una prospettiva di speranza e uno stimolo quanto meno al miglioramento del modello di mercato esistente.
In un tale quadro, le parole di Papa Francesco[1] ci donano quella speranza, ricca di gioia, di cui l’uomo è affamato. Il Pontefice riconosce e plaude i successi che contribuiscono al benessere delle persone, per esempio nell’ambito sanitario, educativo e comunicativo, ma allo stesso tempo evidenzia che “non si può dimenticare che la maggior parte degli uomini e delle donne del nostro tempo vivono una quotidiana precarietà, con conseguenze funeste. Aumentano alcune patologie. Il timore, la disperazione si impadroniscono del cuore di numerose persone, persino nei paesi cosiddetti ricchi. La gioia di vivere frequentemente  si spegne, crescono la mancanza di rispetto e la violenza, l’iniquità diventa sempre più evidente.
Bisogna lottare per vivere e, spesso, per vivere con poca dignità.
Così come il comandamento non uccidere pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire no a un’economia dell’esclusione e delle iniquità. Questa economia uccide.
Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare”.
Si è dato inizio alla cultura dello scarto che, addirittura, viene promossa. Gli esclusi non sono sfruttati ma rifiuti, avanzi.

Una delle cause di questa situazione si trova nella relazione che si è stabilita con il denaro, poiché si accetta pacificamente il suo predominio sulle nostre società.
La  crisi finanziaria che attraversiamo ci fa dimenticare che alla sua origine vi è una profonda crisi antropologica: la negazione del primato dell’essere umano!
Abbiamo creato nuovi idoli. L’adorazione del vitello d’oro[2] ha trovato una nuova e spietata versione nel feticismo del denaro e nella dittatura di un’economia senza volto e senza uno scopo veramente umano.
Dietro questo atteggiamento si nascondono il rifiuto dell’etica e il rifiuto di Dio. All’etica si guarda di solito con un certo disprezzo. La si avverte come una minaccia, poiché condanna la manipolazione e la degradazione della persona. L’etica rimanda a un Dio che attende una risposta impegnativa, che si pone al di fuori delle categorie del mercato. Per queste, se assolutizzate, Dio è incontrollabile, non manipolabile, persino pericoloso, in quanto chiama l’essere umano alla sua piena realizzazione e all’indipendenza da qualunque tipo di schiavitù.
Il denaro deve servire e non governare!”.
I meccanismi dell’economia attuale promuovono un’esasperazione del consumo, ma risulta che il consumismo sfrenato, unito all’iniquità, danneggia doppiamente il tessuto sociale. In tal modo la disparità sociale genererà, prima o poi, una violenta reazione la cui risoluzione sarà alquanto complessa.
Riflettiamoci su.


                                                                                                  E.D.M


[1] Francesco, Evangelii Gaudium, Esortazione apostolica sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale, cap. 2
[2] Es. 32, 1-35

venerdì 23 agosto 2013

Sull'articolo 1 della Costituzione


Articolo 1 della Costituzione:

“(1)L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. (2)La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

Per un grande giurista italiano, Costantino Mortati, questa disposizione sarebbe la supernorma costituzionale, a cui si riconducono tutti i principi contenuti nella Carta. Sul lavoro, sulla democrazia, sull’Italia stessa, credo ci sia pochissimo da aggiungere a quanto già detto da tanti.

Pur non essendo molto originale, mi permetto di proporre una riflessione sui “limiti” e sulle “forme” che la Costituzione impone al popolo di seguire nell’esercizio della sovranità.

Curiosità: il primo articolo è pieno di doveri, non di diritti. Questa frase forse è mendace, ma solo perché qualunque principio si traduce in diritto per qualcuno, e dovere per altri. Ma certamente il rispetto di quelle forme è un chiaro avvertimento pronunciato con la voce di Sordi alla moltitudine italica in bianco e nero: “Popolo! Tu vuoi governare? Vuoi essere sovrano? E allora rispetta l’ordine costituito, brutto popolo che non sei altro!”. Insomma, è come un intimo richiamo che il popolo rivolge a se stesso (oltre ad essere dal punto di vista giuridico la base del diritto italiano stesso). Tant’è che Calamandrei dirà: “Le dittature sorgono non dai governi che governano e durano, ma dall'impossibilità di governare dei governi democratici”. Dei mille significati che possiamo attribuire a questa frase, ne propongo uno: se non rispetti le procedure non governi, se non governi non duri, se non duri cedi il fianco all’antidemocrazia.

Potremmo citarne tanti di limiti e forme di esercizio della sovranità (forma di stato e di governo, rispetto del procedimento legislativo, del ruolo della magistratura, del ruolo del Parlamento e del governo, delle attribuzioni tra poteri dello Stato, delle disposizioni fiscali e tributarie, esercizio legittimo del potere costituito in tutte le sue forme, scongiurare a costo della carriera personale l’abuso di potere, riferirsi solo ed esclusivamente al diritto statuale per risolvere le proprie istanze ecc… ).

Ma torniamo alla governabilità. Il punto centrato da Calamandrei è sconvolgentemente verificabile in Italia. Berlusconi è stato accusato di regime, di instaurare una “larvata dittatura” sempre di Calamandreiana memoria, e qui non ci interessa approfondire la vicenda. Ma cosa accade quando in Italia si susseguono i Governi, quando movimenti di individui si muovono movimentando idee, desideri, passioni, voglie e infine istinti della plebe? Sì, voglio giocare con le parole. Accade che si origina un movimento verso il basso, come con i cicloni o meglio con lo sciacquone: movimento che poi è sinonimo di moto, che in italiano significa anche insurrezione, sommossa, tumulto. Una quasi rivoluzione.

Insomma, qualche buffone potrebbe convincerci con una “larvata rivoluzione” tanto quanto (forse, lo vedranno i posteri) il berlusconismo di inizio secolo ha giocato le sue carte in una “larvata dittatura”. 

Resta un aspetto da rilevare, lasciando ai commenti l’approfondimento dei temi solo lambiti in questo contributo, e scusandomi in anticipo per l’eventuale poca sensibilità utilizzata; se è valido in politica il c.d. principio di castrazione, secondo cui una libertà è esercitabile se da essa discendono delle precise responsabilità ben chiare a chi la esercita, potrebbe essere vero che la sovranità è esercitata dal popolo esclusivamente se il popolo è consapevole delle forme e dei limiti? Insomma, il popolo che vota e partecipa, ha un riscontro dell’esercizio della sovranità, oppure è come un povero eunuco?

Pensiamoci.

                                                                                              P.B.

martedì 4 giugno 2013

Se...

Se ritenere che non servano riforme costituzionali vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che non servano perchè forse il problema non sono le regole del gioco ma i giocatori vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che cambiare le istituzioni non serva a nulla se prima non migliora un pò chi deve abitarle vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che difendere l'attuale Costituzione non sia la reazionaria difesa di un mito ma un invito alla sua piena applicazione vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che la Costituzione italiana dia tutti gli strumenti per realizzare una buona democrazia rappresentativa ma che al momento quegli strumenti chiamati "corpi intermedi" siano alla deriva vuol dire essere un conservatore sì, io lo sono.
Se ritenere che la vera questione sia nel ridare senso e vita ai corpi intermedi, partiti su tutti, vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che la nostra Costituzione non sia vecchia dopo soli sessantacinque anni vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che la Gran Bretagna e gli USA siano ancora delle democrazie valide pur andando avanti con la stessa impalcatura costituzionale da centinaia di anni vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che a differenza della Gran Bretagna e degli USA le criticità nascano dalla scadente qualità della classe dirigente italiana, specialmente politica, che si riverbera in una debolezza degli enti intermedi vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono. 
Se ritenere che tra i padri costituenti vi siano state alcune delle migliori, lucide e lungimiranti menti della storia recente italiana vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che coloro che pretendono di innovare la Costituzione non siano all'altezza dei padri costituenti nè di ciò da loro prodotto vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che per cambiare le fondamenta della Costituzione occorra un'Assemblea Costituente e che una semplice commissione sia illegittima vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che ogni costituzione non rappresenti solo un mero eleaborato teorico ma anche il carattere, la storia e lo spirito di un popolo vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che la costituzione americana rispecchi la caratteristica tensione alla libertà e alla costruzione della felicita del popolo americano vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che la costituzione inglese non scritta ma rispettata rispecchi il noto pragmatismo del popolo inglese vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che le cinque repubbliche attraversate dai francesi rispecchino la loro storica irrequietezza vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che sì, la Francia è passata dalla quarta repubblica parlamentare alla quinta presidenziale, ma chi l'ha rivoltata è stato un certo Charles De Gaulle e non Quagliariello vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono. 
Se ritenere che la costituzione tedesca rispecchi anche la loro secolare esperienza federale vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che non a caso i padri costituenti abbiano scelto un regime parlamentare per gli italiani - popolo dei guelfi e dei ghibellini, dei campanili, degli scontri fratricidi, delle mille varietà - proprio perchè gli italiani si debbano "parlare" in un luogo che rappresenti e unisca le loro diversità per crescere insieme, se ciò vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che i padri costituenti avessero ben presente quanto sia facile per gli italiani nei momenti di difficoltà affidarsi inopinatamente all' "uomo della Provvidenza" vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che veniamo da anni in cui un solo uomo (in questo caso B., ma fosse stato chiunque altro) ha avuto una maggioranza parlamentare amplissima e dunque una capacità di azione politica piena ma che comunque non ha fatto nulla vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono. 
Se ritenere che in un paese in cui il sistema dell'informazione e della comunicazione, a prescindere dalle posizioni politiche, sia deformato e pregiudichi potenzialmente una corretta formazione dell'opinione pubblica vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che: "Oggi ho visto un concittadino uscire dalla banca piangendo. Gridava: non ce la faccio più a vivere con questa Costituzione!" (cit. @_zolf, twitter) vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che la priorità del popolo italiano al momento non sia la riforma costituzionale, ma la crisi economica, il lavoro, la disoccupazione giovanile, gli investimenti, un dibattito serio sui trattati europei stipulati, un sistema dell'istruzione carente, un sistema universitario martoriato, il dissesto idrogeologico, una migliore sanità ecc... vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono. 
Se ritenere che semplicemente non sia il momento opportuno per dilettarsi a dissertare sui più svariati sistemi politici ma che comunque se ne potrà parlare tranquillamente a tempo debito vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che con la stessa velocità con cui ci si occupa di formare una commissione per discutere e modificare la Costituzione si affrontasserero altre incombenze vicine al sentire del popolo italiano vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che una nuova legge elettorale che dia ai cittadini la possibilità di eleggere i candidati sia molto più urgente di un nuovo sistema istituzionale vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che al momento i livelli di demagogia e leaderismo sterile non consentano qualsivoglia svolta in senso presidenziale dello Stato vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.
Se ritenere che il sistema democratico rappresentativo sia più impegantivo perchè fondato sulla fiducia tra rappresentato e rappresentante e che sia proprio questa fiducia a mancare oggi, ma che comunque valga la pena ritentare e perseverare vuol dire essere un conservatore, sì, io lo sono.

Se essere un conservatore vuol dire essere un custode, sì, io lo sono. Perchè si custodisce, se non per il futuro?

                                                                                            V. C. 

martedì 7 maggio 2013

“Società civile” e “Chiesa-popolo di Dio”



"Società civile” e “Chiesa-popolo di Dio” sono due concetti alla base di una visione partecipativa ed in senso lato democratica delle due dimensioni dell’Uomo occidentale. Ma davvero esistono nell’esperienza categorie così nettamente individuabili all’interno dei rispettivi ambiti?

Immaginiamo uno Stato-istituzione senza “società civile”; oppure una Chiesa-istituzione senza il  “popolo di Dio”: gusci vuoti. Anzi, per la verità, gusci artificiali vuoti.

In diversi ambienti, tanto civili quanto ecclesiastici, si verifica il solito abuso linguistico; si avverte quasi una contrapposizione tra queste astrazioni, queste categorie generiche, e una realtà istituzionale separabile. Si sente parlare di “noi della società civile” contro “loro della politica”, oppure “noi Chiesa comunità” contro una “Chiesa/clero/istituzione”. La parte sugli aspetti ecclesiastici è consultabile su http://fuciromasapienza.myblog.it/
Per quanto riguarda lo Stato, i politologi si esercitano da secoli sulla distinzione tra Stato-comunità e Stato-istituzione. Il diritto costituzionale, più rigoroso, supera queste questioni esteriori considerando lo Stato come ordinamento giuridico.

Dal punto di vista concreto e reale, fuori dalle elucubrazioni intellettuali, è del tutto banale la distinzione tra “società civile” e “politica” o Stato. Tanto perché in democrazia (rappresentativa o diretta) la società civile è la politica (partecipando a partiti e votando, oppure solo votando nel caso della diretta), quanto perché una politica che prescinde dalla società civile è destinata a non sopravvivere ed essere sostituita. Ma per la prima ragione, ad essere sostituita, in ultima analisi, è una parte della società civile, quella che si è impegnata nelle res publicae.

Quindi a fallire, da un punto di vista storico, è una generazione, un popolo di una determinata epoca: tutti gli Italiani, tutta la società, sono il prodotto della sua evoluzione (ovvero involuzione) culturale e sociale. Se i politici di fine ‘900 sono considerati “ladri”, è vero che in buona parte delle case, nel XX secolo e nei primi del XXI, si evade il canone RAI; oppure in buona parte degli esercizi commerciali non si adempiono oneri fiscali; etcc … . Insomma, buona parte dei politici è la rappresentazione di buona parte della società, perché i politici sono la società.
La soluzione? Dare una chance alla generazione successiva.



                                                                                            P. B.

giovedì 2 maggio 2013

Tutti per il popolo, nessuno per il popolo: cos’è il popolo





Il mondo si muove, seppur senza avere una meta, ma si muove. Anche l’Italia si muove, in un continuo, inesorabile declino di disperazione, rabbia e impotenza. C’è però un punto fermo, fermissimo, che non si sposta nemmeno di un millimetro. Lo stallo politico. E’ proprio questo il massimo della contraddizione della situazione odierna: lo stallo, mentre tutto precipita.

Nonostante ciò, da tutte le parti ogni giorno si sentono proferire parole d’urgenza e necessità: urge fare qualcosa per il paese, urge aiutare immediatamente chi è in difficoltà, è necessario dare ossigeno a chi non ne ha, è necessario stabilire priorità e relative soluzioni. Tutti per il paese dunque. Tutti per il popolo italiano, dunque. In realtà nessuno per il paese, tanto meno per il popolo. La menzogna dell’attesa per la ricerca della migliore strada da intraprendere nasconde malamente l’olezzo del conflitto degli interessi di parte, dei vantaggi particolari, delle vanità personali. L’orchestra suona, mentre il Titanic affonda.

Certo, è impossibile non constatare l’oggettiva complessità del puzzle politico dopo il bizzarro risultato elettorale. Ma sicuramente più grave è la cecità delle componenti politiche verso lo stato comatoso in cui riversa la nazione. Cecità provocata da anni e anni di progressivo distacco della classe dirigente dalla vita del paese e del suo popolo. Se tale distacco può esser derivato, almeno all’inizio del processo, da cause non del tutto volute, si è poi perseverati nel volgere lo sguardo dall’altra parte. Intenzionalmente.

Il costante richiamo alla distanza tra governanti e “popolo” il più delle volte è inteso in chiave populistico-demagogica, alla “grillina” diremmo oggi, cioè pochi brutti e cattivi da una parte e tanti buoni e virtuosi dall’altra. In realtà la questione è di metodo, precisamente di metodo della partecipazione alla vita civile. E’ qui che i concetti di “popolare” e “popolarismo” possono rappresentare un’alternativa per uscire dal pantano. Nella prospettiva sturziana il popolo non è né quella “entità” di cui il leader è convinto di incarnare in toto l’essenza (da qui il leaderismo sterile che viviamo oggi nel nostro paese), né è una nozione di popolo organicistica. Prima di tutto c’è la persona, che giudica, agisce e sceglie, mentre i concetti generali di "stato", "società", "classe" non configurano realtà diverse e “altre” rispetto alle parti che li compongono. Le parti, cioè le persone, sono prioritarie ed hanno una valenza superiore rispetto alle aggregazioni complessive, ma allo stesso tempo quest’ultime conincidono ed esistono in quanto somma delle parti. Il fattore principale che rende questa somma uno stato, una società, un popolo è la partecipazione. Ciò vuol dire che le scelte (che vanno prese e perseguite, onde evitare di rimanere sempre in un limbo) devono essere condivise attraverso un vero coinvolgimento del popolo individuando i reali problemi e ricercando le soluzioni.

Il coinvolgimento del popolo, come si è già detto, non corrisponde però alla volontà generale della masse, utopica quanto disfunzionale, in realtà vuol dire formare un gruppo dirigente e specificamente politico che, provenendo da quella civica aggregazione di persone che si è definito “popolo”, possa poi ambire a essere il governo “del popolo, per il popolo”, parafrasando una famosa frase di Abramo Lincoln.
Questa funzione di formazione politica, ma anche civica e culturale, nonché di intermediazione tra la futura classe dirigente e il popolo era (e dovrebbe essere, costituzionalmente) adempiuta da quelle particolari associazioni che sono i partiti. Il loro ruolo era (e ripeto, dovrebbe essere) fondamentale. Facendo riferimento a delle ideologie - o, comunque a delle idee-, questi in passato erano i luoghi prediletti  in cui si pensavano delle scelte, si prendevano delle decisioni confrontandosi,  processi che partivano dal singolo iscritto per coinvolgere poi la sua stessa famiglia, quella piccola comunità che era la sezione di partito fino ad arrivare ai vari livelli istituzionali:  l’assessore, il sindaco, il presidente della Provincia, della Regione, il parlamentare, il componente del governo. Era questa la via percorsa per coinvolgere il popolo nelle responsabilità, in cui quasi sempre erano i più capaci, o comunque riconosciuti tali, ad andare avanti nel perseguimento delle proprie e altrui istanze politiche. Se constatiamo come oggi questa via sia stata chiusa per prendere la “scorciatoia” del rapporto diretto edulcorato tra il leader e le masse, modello che ha scambiato la riflessione con il sensazionalismo degli spot elettorali, possiamo comprendere che se da un lato la partitocrazia chiusa e sterile è da evitare, dall’altro la completa evaporazione dei partiti è stato sicuramente uno dei fattori che ha contribuito alla decadenza socio-politico-economica odierna dell’Italia.

Viviamo insomma in una democrazia senza “demos” ovvero senza popolo, nel più concreto significato greco della parola, cioè “ tutti coloro che partecipano alla vita della polis” (o dello stato, attualizzando).

Proprio in questo senso, don Sturzo, all’epoca della formazione del Partito Popolare Italiano tra il 1918 e il 1919, aveva scelto di denominare il partito come “popolare” e non “del popolo”: sostenere che il proprio partito rappresenti "il popolo" significa escludere tutti coloro che non si riconoscono in quel partito dal popolo, pretendendo di stabilire con parzialità la discriminante tra il “vero popolo” il “non-popolo”. In realtà, il ruolo del partito nel contesto democratico è di strumento di partecipazione proprio per essere “popolare”, cioè non elitario né aristocratico. Solo così il popolo sarà il protagonista legittimo della vita democratica, il soggetto storico valido a riformare la società in cui le personalità passano, per quanto importanti e significative, mentre il metodo resta.

Purtroppo oggi in Italia non si odono le voci del popolo, ma solo il silenzio della distanza.

                                                                                         
                                                                                          V. C.