venerdì 21 novembre 2014

Il Paese del formalismo militante

“L’Italia è il Paese che amo”. Sembra assurdo, ma qualcuno ha costruito una carriera politica partendo da queste facili parole. Non so se è capitato a tutti di amare, a me sì: posso garantire che quando si ama, la vita quotidiana è sospinta da una forza incredibile. Cosa c’entra tutto questo con il titolo?

Il nesso è facile. La vita quotidiana di un giovane laureato in Giurisprudenza è costruita interamente sull’amore, cioè su una forza invisibile che lo incoraggia ad andare avanti. In Italia infatti non ha nessun senso pratico, finalizzato all’inserimento professionale, frequentare alcun corso o percorso formativo post lauream. L’unico senso che ha è il formalissimo puro e semplice rilascio di un titolo. Non si impara davvero niente di utile da spendere nell’immaginario e ormai mitico “mondo del lavoro”.
Ammesso che esista, il mondo del lavoro è ad anni luce di distanza dal “pianeta gavetta”, anch’esso, come una più nota Isola, situato immediatamente dopo la “seconda a destra, poi dritto fino al mattino”: non c’è!

È il momento di cambiare. L’Italia tiene al palo della formazione migliaia di talenti, che nascosti sotto il materasso per un decennio non renderanno di più, anzi, renderanno sempre meno. Ecco le riforme da fare: eliminare odiosi percorsi a ostacoli (scuole di specializzazione, tirocini, praticantati) e rendere accessibile il lavoro subito; includere la pratica obbligatoria all’Università; di conseguenza eliminare gli esami di Stato. Altro che “Atto Lavori” (Jobs Act).
Tutto questo si collega con una visione politica della società, per certi versi intrinseca alla storia dell’Occidente. Alla base di tutto c’è una concezione diversa dello “stato di natura”, della situazione in cui versano gli Uomini prima di costruire uno Stato giuridico. Se è presupposto uno stato di natura in cui gli uomini sono “lupi” (S. Agostino, Hobbes) gli uni degli altri, è necessario uno Stato giuridico che autoritativamente dica cosa fare, selezioni, agisca (tramite gli ordini professionali) per legalizzare la lotta omicida, trasformandola in ordinata e legittima prevaricazione del più forte (in termini di titoli). L’altra concezione di stato di natura è diametralmente opposta (S. Tommaso, Locke): qui si presuppone che agli esseri umani piace interagire per il bene di ciascuno, ed entrando in contatto, “convengano” (covenant) uno Stato giuridico per prosperare tutti.

Si potrebbe dunque affermare che una certa visione possa essere chiamata di destra, e l’altra, di sinistra. Nota: entrambe queste tensioni possono coesistere in un raccoglitore politico, ovunque esso sia collocato nella destra e nella sinistra parlamentarie. Le nostre categorie sono tensioni filosofiche intrinseche all’uomo politico e al legislatore. Secondo me, la prima ha caratterizzato la passata evoluzione (dagli anni ’20 del secolo scorso ad oggi) delle “LIBERE” (!?) professioni in Italia. È forse il momento che la seconda impostazione prevalga; e che gli ordini professionali restino enti di garanzia e tutela: nulla più.

                                                                                                              P. B. 

lunedì 10 novembre 2014

Bioetica laica e bioetica cattolica

Vorrei porre l’attenzione su di un tema particolarmente delicato ma quasi abbandonato da una società a solidarietà immatura, per non dire fortemente carente, soprattutto nei confronti dei soggetti deboli quali il nascituro concepito. Davanti il progredire della tecnica, l’osservatore, specialmente quello cattolico, sembra assopito dai fumi di finta libertà intrinseca al dominio del proprio corpo. L’uomo si considera centro di se stesso, non figlio di un unico Padre, come noi cristiani crediamo. Le parole che scriverò non sono rivestite da presunzione di completezza, l’argomento è fin troppo delicato e complesso; vogliono soltanto presentare un monito e un tentativo di risveglio del nostro io cosciente.

Il legislatore[1] e la giurisprudenza di riferimento sembrano avvalorare l’idea di un sistema costituzionalmente orientato nella direzione di una preminente necessità di protezione della salute della donna, senza considerare pienamente la figura del nascituro concepito. La protezione della donna diventa bene supremo dinanzi al quale, almeno de iure condito, ogni altro bene, anche il diritto alla vita o, ove lo si ammetta, anche alla non vita se non sana, sembra essere costretto a cedere il passo, giusto o sbagliato che possa apparire. Proprio in senso contrario all’antico brocardo primum vivere, deinde filosofari. Si manifesta quindi la tensione tra due opposti paradigmi: quello della bioetica laica, consistente nel «principio della qualità della vita» e quello della bioetica cattolica, consistente, invece, nel «principio della sacralità della vita». Entrambi, però, da potersi considerare come giusti limiti al progresso tecnico-scientifico[2]. In una simile prospettiva, la bioetica sarebbe da considerare come strumento di individuazione di giusti limiti al «progresso tecnico-scientifico» ed in conseguenza della crisi di morali assolute, manifestatasi in maniera devastante con il movimento nazista e con i tragici eventi ad esso conseguenti che hanno segnato la fine dell’età dell’innocenza della scienza, venendo messa in discussione la sua auctoritas[3].

La problematica dei diritti umani non è tanto più quella di giustificarli, quanto, quella di proteggerli, una questione non filosofica, ma politica[4]. Appare evidente come l’art. 1 c.c., benché da intendersi norma fondamentale in materia di tutela della persona e del concepito, non sembra, tuttavia, essere sufficiente al fine di coordinare la tutela della soggettività giuridica con quella della persona. Sembra esservi disomogeneità tra il concetto di soggetto di diritto e quello di persona, cui si rivolge la nostra Costituzione e la Convenzione dei diritti dell’uomo. Persona sembra essere considerata l’essere naturale, meglio definita dalla filosofia come centro di relazioni, che è necessariamente anche soggetto di diritti per l’ordinamento. Il concetto di soggetto di diritto e quello di persona umana sono ben distinti, non omogenei e aventi diversi riferimenti normativi, risultando più ampia la protezione della persona.

Quello di persona è un concetto che preesiste all’ordine giuridico che, pertanto, non la determina e non è neppure in grado di porre limiti alla protezione di essa. Si spiega meglio, in tal senso, l’incipit dell’art. 1, comma 1, della legge sulla interruzione di gravidanza[5]: «lo Stato tutela la vita umana dal suo inizio». La legge sembra prescindere da una personificazione del vivente. È assicurata tutela al nascituro a prescindere dal suo essere persona, almeno come tradizionalmente intesa. Di conseguenza vi è vita nell’embrione, vi è vita nel feto. L’unico limite tollerabile alla protezione della vita del nascituro è la tutela della salute della donna, essere naturale non in divenire, se si preferisce, persona fattasi.

Questa situazione giuridica soggettiva più favorevole al nascituro, in termini di estensione della tutela della persona, rappresenta, forse, la vera novità della l. 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita. L’art. 1 della citata legge «assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito». Nonostante la dizione usata dal legislatore sia oscura, sembra, tuttavia, chiaro il riferimento al diritto alla vita e alla dignità del nascituro, potendosi giustamente discutere addirittura sulla possibile estensione del diritto alla vita sino a ricomprendere anche il diritto a nascere sani. Nonostante alcuni autori, di dubbia derivazione politica, abbiano affermato che tutelando il nascituro «si scorge la volontà di imporre un modello di gestione del corpo della donna, sottratto alla libera gestione della persona interessata», ci si chiede se sia in atto un parziale mutamento della concezione stessa dei diritti fondamentali - con specifico riferimento ai diritti umani -  tradizionalmente intesi come «diritti universali ed inalienabili a cui ogni individuo può appellarsi per il fatto che, nascendo, arriva nel mondo come membro dell’umanità».

Sembra dunque trovarsi una crisi bioetica del diritto, nel senso che sia la scienza sia l’affermazione dei diritti umani abdichino alla loro funzione di giusti limiti al potere della tecnica. Una risposta, seppure debole e parziale, è stata data dalla l. n. 40 del 2004 invitando ad essere cauti e prudenti nel trattare l’embrione, non dovendo essere considerato come nulla. Questa potrebbe essere la linea interpretativa da percorrere in materia, cercando di escludere pericolosi eccessi o, ancora peggio, strumentalizzazioni sterili e superficiali. L’indagine deve essere ricondotta anche e necessariamente sui doveri, specialmente in ambito familiare, di preservare l’integrità, di garantire la nascita, la crescita, di proteggere la salute del nascituro. «Bisogni ed interessi», questi, scrive Giorgio Oppo[6], «attuali di quella entità vivente che è il feto a prescindere dalla sua qualificazione come persona». L’autore evidenzia come oggi ci si trovi di fronte al declino del soggetto ed all’ascesa della persona, nel senso che «il progressivo passaggio dei diritti umani dall’ordine sociale all’ordine statuale, può essere descritto come ascesa della persona rispetto al soggetto; ma è anche ascesa dello stesso soggetto, da una condizione di soggezione a una condizione di sempre più centralità nell’ordine giuridico. Un declino è quindi configurabile solo come riduzione di una posizione di prevalenza della nozione e della realtà giuridica del soggetto rispetto alla nozione e alla realtà della persona, non come perdita di sostanziale giuridicità».

Tutto ciò già accadeva nell’antico diritto romano, del quale sorprende la modernità: chi è capace, anche prima della nascita, è da considerare a tutti gli effetti persona. Punto di forza del diritto romano classico e giustinianeo era la non elaborazione di concetti astratti, se non quando fossero estremamente necessari. Già dall’utilizzo della terminologia si evidenzia la sensibilità dei giureconsulti classici in tema di nascituri concepiti. Il termine più usato è qui in utero est, che esprime un concetto estremamente concreto. Accanto a questo viene usato anche partus (può indicare, oltre al partorire, anche il nascituro ed il nato) per sottolineare la continuità tra il nascituro e il nato attraverso l’atto del partorire. Il termine fetus non è usato dai giuristi in riferimento all’uomo, ma soltanto per gli animali[7]. La Costituzione italiana, all’art. 32, in riferimento al fondamentale diritto alla salute, usa il concetto giuridico, perfettamente adeguato alla rerum natura, di individuo. Con ciò viene implicitamente affermata, al di sopra di ogni discussione positivistica, la titolarità di diritti di ogni individuo umano esistente, anche concepito. Nonostante in Italia sia prevalso l’individualismo, esso sembra venir affievolito dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale italiana a partire dal 1997. Il diritto alla vita dell’individuo deve essere integrato nel diritto alla vita del popolo: un diritto alla vita inteso in modo totale. La via inizia concettualmente nel rapporto tra individuo e collettività indicata dal giurista Alfeno Varo, alla fine dell’età repubblicana; la via si sviluppa grazie al favore per il nascituro precisato da Ulpiano, Paolo, Marciano; la via conduce all’aumento della cittadinanza da Caracalla a Giustiniano.Non vanno dimenticati, oggi, i problemi dello status (ad es. la cittadinanza dei nuovi nati, l’adozione dei concepiti), così come quello degli alimenti.

Quanto alla convergenza dei sistemi giuridici appare utile ricordare la discussione tra Rabbi Jehudà il patriarca e l’imperatore Antonino (forse Marco Aurelio) che si trova nel Talmud[8]: «Antonino ha chiesto a Rabbi: ”da quando viene introdotta l’anima nell’uomo, dall’ora del concepimento o dall’ora della formazione [dell’embrione]?”. Gli rispose: “dall’ora della formazione”. Gli disse [Antonino a Rabbi]: “è mai possibile che un pezzo di carne stia tre giorni senza sale, senza andare a male? Certo deve essere dall’ora del concepimento [lett. la visitazione]”. Ha detto Rabbi:”questo mi ha insegnato Antonino e vi è un passo biblico che lo conferma, come è detto: Mi hai donato vita e mi hai usato misericordia e la tua visitazione conservò il mio spirito”».
Questo rispetto per l’individuo, in cui convergono l’Ebreo e il Romano, si scontra con l’odierno individualismo del più forte che minaccia la crescita di ogni popolo.


                                                                                                      E. D. M.






[1] L. 194/1978 sull’aborto e L. 40/2004 sulla riproduzione assistita.
[2] Limiti sui quali si è iniziato a discutere seriamente durante il Processo di Norimberga con le sue tragiche e drammatiche rilevazioni.
[3] F. Rinaldi, Relazione del 5.4.2013 presso Università degli Studi di Cassino nell’ambito di un seminario svolto per le attività del Dottorato in Diritti fondamentali.
[4] N. Bobbio, Sul fondamento dei diritti dell’uomo, in L’età dei diritti, Torino, 1990, p. 52 ss.
[5] L. n. 194/1978
[6] G. Oppo, L’inizio della vita umana, in Riv. dir.civ., 1982, p. 504
[7] P. Catalano, Diritto, soggetti, oggetti, in Iuris Vincula, Napoli, 200, p. 98 ss.
[8] T.B. Sanhedrin 91 a. Stessa questione posto dai padri della Chiesa tra Tertulliano e Sant’Agostino.

mercoledì 5 novembre 2014

Che fine fa l’associazionismo?

Qualche settimana fa in piazza San Pietro la Chiesa intera si è ritrovata per la beatificazione di Paolo VI. Oltre a celebrare la santità di Giovanni Battista Montini, asceso agli onori degli altari, la beatificazione ha favorito nel tempo che l’ha preceduta una serie di iniziative volte a porre una riflessione non solo su uno straordinario personaggio della Chiesa del XX secolo ma anche sull’ambiente che lo ha circondato. Una parte di questo ambiente è stata sicuramente la Fuci, di cui è stato assistente ecclesiastico dal 1925 al 1933. La Fuci è la più antica organizzazione studentesca italiana ed un’articolazione del variegato mondo dell’associazionismo cattolico italiano.

Proprio l’associazionismo e il movimento cattolico, tanto celebrati nel periodo di Montini, oggi sembrano attraversare un momento che potrebbe essere definito di crisi o per lo meno di stallo. Se all’inizio del XX secolo Agostino Gemelli paragonava il movimento cattolico italiano ad un grande corpo che, nonostante la ricchezze di esperienze associative, si ritrovava ad avere una testa piccola, oggi potrebbe dire senza suscitare particolare scandalo che il suddetto oltre alla testa si ritrova ad avere anche un corpo piccolo. Ma se nell’ambito del movimento cattolico molte realtà appaiono comunque vivaci e in grado di poter offrire comunque una risposta ad una domanda di fede, il mondo dell’associazionismo arranca. La sua azione in seno alla società è poca incisiva e più indirizzata a conservare la sua complessa configurazione fatta di statuti, tessere, congressi. Sembra  impantanato in una situazione di paralisi e di inconsistenza e di inconcludenza rispetto a una società che viaggia a vele spiegate verso l’ignota e per certi versi inquietante rotta della post-contemporaneità. Arduo e complesso sarebbe rintracciare le cause di questa inconsistenza dell’associazionismo cattolico italiano.
      
Certamente il panorama sociale italiano è profondamente cambiato, come del resto quello internazionale. Il declino della forma associazione va di pari passo con quello della forma istituzionale tout-court o delle altre forme di rappresentanza come i partiti o i sindacati. E questo si palesa soprattutto nell’ambito ecclesiale. Il proliferare dal Vaticano II di movimenti e di cammini di fede alternativi ha sicuramente indebolito la struttura associativa che nel corso del XX secolo ha rappresentato uno dei pilatri  su cui si dispiegava la vita di fede dei cattolici italiani.

Ora, la varietà e la presenza di cammini e di movimenti è sicuramente  un aspetto positivo per la Chiesa e che risponde ad una domanda spirituale significativa, ma il progressivo indebolimento dell’associazionismo rende manifeste delle possibili derive che non possono essere trascurate. Forse la più preoccupante è rappresentata dal distacco che si sta delineando tra società civile ed esperienza di fede, tra l’essere cittadino e l’essere fedele. La manifestazione palese è stata a livello politico lo sgretolamento  della tradizione popolare e cristiano-democratica, praticamente svuotata da chi se ne diceva (o dice) legittimo prosecutore. Tradizione che vedeva nell’associazionismo il proprio serbatoio di energie, di uomini, il proprio laboratorio di idee. L’affermazione di uno storico come Chabod che ha definito la nascita del PPI come l’evento più importante della storia d’Italia del XX secolo, evidenzia il peso decisivo di un certa tradizione. Non si tratta in questo caso di rimembrare una mitica età dell’oro, il che sarebbe irreale, ma un evidenziare come i cattolici si sono inseriti nella società italiana con la prospettiva di cambiarla nell’ambito non solo politico ma anche dell’università, della cultura, dell’economia, del lavoro. Il rischio di oggi è quello di articolare la vita di fede nell’ottica di uno spiritualismo disincarnato, tendente a creare un vero e proprio fossato con il mondo che ci circonda . Il cristiano, infatti, ha gli occhi fissi al cielo ma anche i piedi saldi in terra. Il cristiano è chiamato sì a non essere del mondo ma a vivere nel mondo.  

Per colmare tale fossato, si è tentato di serrare le fila del cattolicesimo militante intorno a dei principi verso i quali chi si ritiene cattolico non può mostrarsi insensibile. E’ la linea dei valori non negoziabili perseguita dalla metà degli anni novanta dalle autorità ecclesiastiche, con lo scopo di mobilitare l’opinione pubblica cattolica, priva di un punto di riferimento come la Democrazia Cristiana, su determinati temi. Linea che si è limitata all’ottenimento di risultati immediati, quali il rinvio o la cancellazione di certe leggi, o di prove di forza, posizionandosi su un fronte di strenua opposizione e niente più. Questo aspetto “negativo”, andato oltre le intenzioni di chi all’inizio aveva sposato questa linea, ha evidenziato la mancanza di un ceto dirigente laicale, formato in passato nell’associazionismo. Un ceto dirigente che sperimentava un'autonomia del fedele, impegnato nella cosa pubblica e vissuta non come distacco dal mondo o dall’autorità ecclesiale «ma per non impegnare in una vicenda estremamente difficile e rischiosa l’autorità spirituale della Chiesa (...) L’autonomia dei cattolici impegnati nella vita pubblica, chiamati a vivere il libero confronto della vita democratica in un contatto senza discriminazioni. L’autonomia è la nostra assunzione di responsabilità, è il nostro correre da soli il nostro rischio, è il nostro modo personale di rendere servizio e di dare, se possibile, una testimonianza ai valori cristiani nella vita sociale»[1]. Inoltre, costruire un impegno solo su alcuni temi, anche se ritenuti non negoziabili, rischia di scadere nelle contraddizioni tipiche di alcuni settori della destra religiosa americana, impegnata nella lotta contro l’aborto e l’eutanasia, ma altrettanto accanita nel sostenere la pena di morte e la ricchezza di chi è già ricco.

Il movimento cattolico italiano è stato molto più di questo. Ha permesso la partecipazione politica dei fedeli in uno Stato all’inizio ostile, ha pensato l’alternativa alla lotta di classe nella tutela dei lavoratori, ha contribuito all’uscita da una ristrettezza culturale positivista, ha dato una voce di libera coscienza in un regime e molto più ancora. E’ necessaria a questo punto una riflessione che miri ad un ripensamento che interpella le autorità ecclesiali e laici impegnati, perché questo patrimonio e questa tradizione non diventino cimeli da conservare e su cui crogiolarsi ma ricchezza per costruire e non disperdere. Altrimenti si può già comporre il de profundis. Bisogna avere, però, il coraggio di intonarlo.

                                                                                                               V. R.    





[1] A. Moro, Realazione introduttiva all’VIII Congresso nazionale della Democrazia Cristiana, Napoli, 27 gennaio 1962.

mercoledì 1 ottobre 2014

Le crisi, i conflitti, la sorpresa

Viviamo in un periodo di crisi e conflitti generalizzati. Ma non è una novità. I canali diplomatici non hanno ancora trovato i sentieri giusti e non si sa se e quando li troveranno, dunque il mondo assiso attende. Ma anche questa non è una novità. Un militante islamico per la guerra santa a volto coperto e con accento marcatamente inglese decapita disumanamente in differita mondiale un giornalista americano dopo l'altro. E qui lo sguardo dell'occidente si illumina di sorpresa. "Ma ha l'accento inglese! Ma è inglese? Non può essere inglese!". 
E invece sì, è inglese. E' un ex rapper londinese di origine egiziana, da molti anni ormai residente nella capitale in una casa del valore di circa un milione di sterline dicono le cronache. 
Ma non è solo. Qualche giorno prima un bimbo di sette anni impugna fieramente dai capelli una testa mozzata. L'ha portato con sè il padre jihadista. Sono australiani. Ma non sono soli. C'è anche una ex cantantucola americana. Dice che gli infedeli meritano tutti la decapitazione con un coltellaccio. Sembra che ci siano anche decine di italiani, sia d'origine che di seconda generazione. E canadesi. E francesi, tedeschi, belgi, altri inglesi. No, non sono stati rapiti, costretti alla conversione e ad arruolarsi per la jihad. L'hanno voluto loro, l'hanno scelto loro. L'occidente spalanca anche la bocca ora. 

Com'è possibile? Com'è possibile che figli delle zone più ricche, avanzate e progredite del mondo scelgano di loro spontanea volontà di rinnegare tutto ciò che li rendeva tali, comprese religione e famiglia, e di proiettarsi in una dimensione vecchia di secoli dominata dalla guerra permanente e dalla brutalità? E' possibile. Non solo è possibile. Succede. 
Legge dei grandi numeri? Un caso? Pochi squilibrati? Casi-limite? Certo, può essere; anzi, sarà così. Basta trovare qualcuno che ti indottrini per bene e ti faccia un pò di lavaggio del cervello e il gioco è fatto. Capita. Quante volte vediamo nelle nostre società persone che cedono a santoni, chiaroveggenti, sette. Non è poi così insolito. 
Se l'occidente dunque volesse chiudere la questione in modo semplice, veloce e indolore potrebbe farlo. Ma sicuramente non la esaurirà pienamente. Perchè forse ci possono essere altri motivi più profondi oltre la superficie; e scavare stanca. 

Possiamo provare a fare qualche ipotesi, ma ciò richiede un guardarsi allo specchio da parte dell'occidente. Uno specchio che potrebbe sembrare simile al ritratto di Dorian Grey, e l'occidente, o, in questo caso,  "Dorian", ci penserebbe bene due volte prima di specchiarvisi. 
Ma forse conviene molto più utilizzare uno scenario classico: genitori - figli. Attenzione: si profila un alto contenuto moraleggiante.

Sembra quasi che la società occidentale non conosca più i suoi figli e che, a loro volta, i figli non riconoscano più quella che sembrava essere la loro madre. E questo perchè non comunicano. I figli dell'occidente, ad un certo punto, raggiunta la facoltà di poter elaborare un proprio punto di vista rappresentativo, si interrogano su cosa abbia trasmesso loro la società in cui vivono. Spesso se gli abbia trasmesso qualcosa. E come nella più classica trama di un film americano per ragazzi in cui si narra di giovanotti benestanti alle prese con le vicende e problemi della maturità, molti scoprono di aver ricevuto poco o nulla dentro e molto fuori. 
Non valori a cui tenere, ma auto potenti; non principi in cui credere, ma palazzoni d'acciaio; non prospettive d'insieme, ma disagio individuale; non induzione alla speranza ma drenaggio continuo di quei pochi punti fermi che sembravano esistere. 
Mentre pressoché tutti commentano rassegnati il volto dello status quo, i più inicuri volgono lo sguardo altrove, dove la loro totale assenza può rimanere affascinata dalla presenza totale e totalizzante. Al pericolo del totalmente vuoto si somma, così, il pericolo del totalmente pieno. 

E' una storia vecchia, riassunta nella celebre massima che dice più o meno così: "per un uomo che è sempre stato privo di idee, l'avere un'idea può renderlo ubriaco". I figli occidentali dell'Isis sono probabilmente questo, persone stordite dal vuoto e ubriacate da una nuova pienezza. Un pò come la droga, l'alcool, il gioco d'azzardo, combattere per la jihad e sentirsi parte di una comunità di destino, di uno scopo più grande possono inebriare e far sentire vivi. Sentirsi vivi rinnegando tutto il passato e togliendo vite.
Ciò potrà sembrare una spicciola narrazione in funzione di una morale della favola di stampo vagamente pauperistico, se non addirittura indirettamente giustificatrice dei misfatti degli europei dell'Isis. L'occidente brutto e cattivo perchè ricco e tutto il resto povero e buono. 
No, sarebbe troppo semplice e fuorviante. E sarei il primo a non condividere un'impostazione del genere.
Il nocciolo della questione sta nel fatto che l'occidente, da qualche lustro, non sa più crescere. Non che non debba crescere, perchè sarebbe assurdo. 

Da un pò di tempo a questa parte, l'occidente ha deciso di avanzare e di tirar su i propri figli tralasciando o misconoscendo molto di quel bagaglio culturale, sociale e religioso che gli è proprio, che è sempre stato pilastro del suo progresso e che gli ha permesso di assurgere a modello di civiltà. Alcune basi come la fondamentale rilevanza del lavoro per la dignità e la realizzazione personali vengono sempre più calpestate, altre come l' importanza della dimensione sociale e comunitaria a partire dal nucleo familiare, inquinate. Altre ancora come un'istruzione formativa e la partecipazione civica, disincentivate o sminuite. Così facendo si potrà forse crescere economicamente - e come vediamo, neanche quello - ma non progredire integralmente. 
E quando capiterà che sempre più figli dell'occidente si volgeranno a sfogare in altri canali illusori e devianti queste necessità quasi ancestrali e antropologiche dell'uomo occidentale, troveremo probabilmente un occidente invecchiato, decadente e balbettante

                                                                                                          V. C. 

mercoledì 26 marzo 2014

Visione, sogno, politica

Quante volte udiamo la parola “sogno” nel dibattito politico odierno? Tante. “Sogniamo un’Italia così…”, “dobbiamo credere in questo sogno…”, “il sogno di un’Italia nuova…”, “il sogno dei giovani per l’Italia, per l’Europa…”, “non bisogna distruggere questo grande sogno…”, eccetera, eccetera, eccetera.

Rinsaviti dalla sbornia da logorrea politicante, la domanda sorge spontanea: è giusto, è adeguato utilizzare tale termine nel linguaggio politico? O non è forse errato dal punto di vista sostanziale e, agli estremi, fuorviante? Effettivamente, ciò potrebbe risultare vero. Perché in realtà, il grande assente non solo nell’ambito del linguaggio ma specialmente dal punto di vista fattuale, risulta essere il termine “visione”. Nella politica conta di più il sogno o la visione? Ma soprattutto, non sono tutto sommato la stessa cosa? Di fondo, no. Andiamo con ordine, aggiungendo come terzo “comodo” il termine “idea” e il suo significato, il concetto insito nella sua forma verbale.

“Visione”[1] viene dal latino videre e, di base, vuol dire “vedere”. Tralasciando il significato più trascendente, cioè quello di “scena, immagine straordinaria che si vede o si crede di aver visto in stato di estasi o per cause soprannaturali”, è già molto chiaro il significato propriamente fisiologico: “(la visione) è il processo di percezione degli stimoli luminosi, la capacità di vedere”. Partendo da ciò ed estendendo questo significato all’ambito più generale, la visione è, molto semplicemente, “l’azione, il fatto di vedere una cosa per esaminarla, trarne notizie utili”. Dilatando temporalmente questo processo, questa azione, la visione diviene in sintesi “un modo di vedere, un concetto, un’idea personale – dilato anche io e aggiungo: politica – che si ha in merito a qualcosa”. Il procedimento sembra dunque molto semplice: la luce illumina il bicchiere. Percepisco questo stimolo luminoso e dunque sono capace di vedere quell’oggetto. Ciò mi rende possibile esaminarlo e vedo che è una struttura poco alta e cava dentro. Da ciò avrò il concetto o l’idea che qualsiasi altro oggetto simile sarà quello che definisco “bicchiere”.

“Sogno”[2] proviene invece dal latino sŏmnium, a sua volta derivante da somnus, cioè “sonno”. Già qui vorrei sottolineare la differenza tra videre e somnus: l’essere svegli; tanto è vero che si dice “ho fatto un sogno” e non “ho visto un sogno”. Atteniamoci ai due significati più importanti e generali: “in senso ampio, ogni attività mentale, anche frammentaria, che si svolge durante il sonno; in senso più stretto e più comune, l’attività (mentale) più o meno nitida e dettagliata, con una struttura narrativa più o meno coerente; immaginazione vana, fantastica, di cose irrealizzabili”. Anche in questo caso il procedimento è semplice: durante il sonno sogno un essere alato sputa fuoco con zampe di cavallo e testa di leone che mi insegue e vuole uccidermi; io lo sconfiggo con una balestra con dardi-laser. Per me dormiente, tutto molto realistico.

Forse si sarà già inteso qual è lo spartiacque tra i due termini, ma il concetto di “idea” sarà ancora più utile.

“Idea”[3], dal greco ίδέα, cioè “aspetto, forma, apparenza”, a sua volta derivante dal verbo ίδέĩν, “vedere”. Dunque, idea e visione hanno già qualcosa in comune, cioè il “vedere”. È necessario, però, a questo punto, tralasciare tutto il discorso complessivo sull’idea riguardante l’argomento filosofico e platonico specialmente, poiché essenzialmente meriterebbe una lunga e specifica trattazione a parte, e non sono questi momento, sede e soggetto scrivente per farla. Aggiungo soltanto che l’idea platonica è molto simile alla definizione di idea come “attività della mente rivolta ad immaginare una possibile realtà (in contrapposizione alla realtà stessa)”. E sottolineo “(in contrapposizione alla realtà stessa)”. Tornando a noi, nel significato più ampio e generico, un’idea è “ogni singolo contenuto del pensiero, e, più in particolare, la rappresentazione di un oggetto alla mente, la nozione che la mente si forma e riceve di una cosa reale o immaginaria”. Esempi: l’idea di fuoco – cioè fiamma, calore, luce -, o l’idea di bene e male – più variabili soggettivamente -. Detto ciò, si apre una biforcazione: un’idea può essere “il prodotto dell’attività del pensiero, quindi un concetto che sta alla base, che è ispiratore, spunto per un’opera dell’ingegno o dell’arte, e soprattutto (per quello che ci interessa) la parte sostanziale, il contenuto di una dottrina da tradurre in realtà”. Dall’altro lato, l’idea può essere sempre un “prodotto della mente, ma dell’immaginazione, della fantasia, una credenza o speranza illusoria, cosa, in genere, non rispondente a realtà o verità”.

In sintesi, un’idea può essere “un modo di vedere e giudicare le cose, un’opinione, una intenzione, uno scopo”. Ma è importantissimo, fondamentale, sapere se essa ha come matrice di base una visione o un sogno. In modo particolarissimo nell’ambito della politica. Se l’architettura di un palazzo, una scultura, possono essere più o meno influenzate da una visione reale o da un sogno, ciò è molto meno vero per una “architettura” politica. Perché? Perché essa riguarda e coinvolge pesantemente la vita reale delle persone, di molte persone, e tutto ciò che ne consegue.

Nell’alveo politico è dunque necessario possedere un’idea. Ancor più necessario, a mio avviso, è possedere un’idea legata ad una visione politica e non ad un sogno politico. La visione, come suddetto, vuol dire “percepire gli stimoli che provengono dal reale”, e dunque “avere la capacità di vedere la realtà”. Da questa “capacità di vedere” discende la capacità di giudizio, di scelta. La visione precede l’idea di questa scelta, ciò che è propriamente “l’aspetto, la forma, l’apparenza” di questa “capacità di vedere”. L’idea derivante dalla “capacità di vedere”, dalla visione del reale, nella politica, è molto più veritiera e fondata rispetto all’idea derivante da un sogno di per sé molto più fallace e meno coerente.

Se la visione è “vedere” (videre) e l’idea è pure “vedere (ίδέĩν) e il sogno è “sonno” (somnus), se le parole hanno ancora un significato, è allora forse meglio fidarsi di chi vede e non di chi sogna, assegnando il sognare al suo giusto posto, che non è probabilmente il luogo politico.

Perché la differenza è sempre, in fondo, quella originaria: l’essere “svegli” o no.  


                                                                                             V. C.

[1] Voce “Visione”, Vocabolario online dell’Enciclopedia Treccani

[2] Voce “Sogno”, Vocabolario online dell’Enciclopedia Treccani
[3] Voce “Idea”, Vocabolario online dell’Enciclopedia Treccani

sabato 15 marzo 2014

Irreversibile

È sempre stato problematico, sia nella storia quanto nella vita di tutti i giorni, utilizzare il pesante aggettivo “irreversibile”. Questo perché, come generalmente risaputo, poche sono le cose irreversibili nel complesso delle vicende umane, le quali, in quanto tali, sono caratterizzate dalla stessa mutabilità dei soggetti che le vivono. Probabilmente, l’ultima espressione rimasta impressa ai più in cui si è manifestato l’aggettivo “irreversibile” è stata quella pronunciata dal governatore della Banca Centrale Europea Mario Draghi il 21 luglio 2012 e ribadita il 16 dicembre 2013: “l’Euro è un processo irreversibile”. Frase impegnativa, in quanto, come già anticipato, il parametro dell’irreversibilità è arduo da utilizzare già per le semplici vicende umane quotidiane, figuriamoci per grandi e complessi processi sociali, politici, economici.

In realtà, questa non è una novità. Basta infatti volgersi al più recente passato novecentesco per scovare almeno due esempi di piena fiducia nella “irreversibilità” degli eventi. La rivoluzione fascista, e in seguito quella nazista, erano destinate a cambiare radicalmente l’uomo attraverso un processo irreversibile di progressione verso “l’uomo nuovo”: non a caso, il III Reich era da considerarsi “millenario”, un qualcosa di definitivo, di, appunto, irreversibile; ancor di più e ancor prima, la rivoluzione socialista sarebbe dovuta diventare rivoluzione universale, destinata a coinvolgere tutti i paesi nel cammino verso il certo - e irreversibile – orizzonte comune: la presa del potere da parte del proletariato e la formazione della nuova società socialista. Entrambe le dottrine politiche, analizzate dalla storiografia tanto nelle loro differenze quanto nelle loro somiglianze – che non sono poche -, sono segnate da un indirizzo basato su un determinismo storico di fondo: le cose andranno così perche devono andare così e non possono non andare così.

Ma che c’entra questo discorso con l’esternazione di Draghi? Qualcosa c’entra, e per tentare di spiegarlo sarà comodo utilizzare il principale e più duraturo dei determinismi storici recenti: quello marxista-leninista. Gli eventi umani, per Marx, Lenin e per chi poi seguirà le loro orme, non possono che evolvere in una direzione: la presa di coscienza del proletariato della propria forza e il rivolgimento dello status quo borghese della società attraverso l’imposizione della nuova società socialista.

Al procedimento leninista di imposizione violenta della “dittatura del proletariato”, si manifesta in Italia, ad opera di Antonio Gramsci, il concetto di “egemonia”. A questo punto è utile citare lo storico Pietro Scoppola: “se la dittatura è imposizione, l’egemonia è un fatto spontaneo che nasce da una supremazia. All’imposizione rivoluzionaria si sostituisce così un processo fondato sulla forza spontanea di un’idea valida, sulla praticabilità del consenso[1]”. La domanda che, giustamente, lo storico si pone è: “il concetto di egemonia è sufficiente a conciliare la concezione marxista-leninista con i valori della tradizione liberaldemocratica? Nella visione di Gramsci l’egemonia è funzionale a un processo di trasformazione irreversibile. Il passaggio dalla società capitalistica a quella socialista non è un processo reversibile per volontà dei cittadini, ma è legato a un determinismo storico[2]”.

La conclusione, dunque, non può che essere una: “La riflessione gramsciana sull’egemonia non è sufficiente a creare una saldatura fra la concezione marxista-leninista e quella liberaldemocratica fondata essenzialmente sul principio della libera scelta e quindi della reversibilità delle decisioni. La democrazia esiste laddove un governo può essere sconfessato, messo in minoranza, cacciato. È questo il punto di arrivo di tutto il processo di sviluppo del liberalismo[3]”. A questa, qualche pagina più avanti, si aggiunge una conclusione di carattere più generale: “ … siamo spesso obbligati a riconoscere degli stati di necessità, ma gli spazi di libertà degli uomini (…) non sono né totali, né inesistenti. Tutte le filosofie della storia che si muovono su posizioni radicali non corrispondono alla realtà. Gli spazi di libertà umana individuale e collettiva, sono limitati ma esistono. (…) nella storia umana esistono limiti oggettivi alla libertà d’iniziativa e di scelta, condizionamenti che creano situazioni di necessità. (…) riconoscere che esistono stati di necessità non significa negare che ci siano dei costi[4]”.

Tornando, ora, alla frase pronunciata da Draghi, essa c’entra e interessa proprio perché sintomatica di un modo di pensare ed agire molto simile a quello che si è sopra descritto grazie alle parole di Scoppola. Un procedere cioè indirizzato, guidato, fissato da una filosofia della storia radicale, da un lampante determinismo storico.

Negli ultimi anni la realtà effettiva ha evidenziato in tutta la sua crudezza le svariate problematiche connesse all’adozione di un’unione monetaria tra paesi considerevolmente diversi. Numerosi ed autorevoli critici, vecchi e nuovi, (tra i quali si annoverano sette premi Nobel) spiegano l’importanza di prendere coscienza degli errori, di poter tornare sui propri passi e di poter cambiare le scelte, riscuotendo sostanziosi consensi nelle opinioni pubbliche nazionali sempre più desiderose di informazioni affidabili che riescano a spiegare con cognizione di causa le ragioni profonde di questa inspiegabile – e quasi esclusivamente europea – depressione infinita. Ciò accade, ma non conta.

Il percorso disegnato è, infatti, chiaro: l’Euro è irreversibile poiché è l’unico elemento che da sostanza alla parola “Europa”. Non importa che la parola sia la sintesi verbale secolare di un’entità geografica, sociale, religiosa, culturale, politica. Non importa che ben 10 stati su 28 dell’Unione Europea non facciano parte dell’unione monetaria. Non importa che un potere che tradizionalmente definiva il nucleo della sovranità e dell’indipendenza statuale moderna – come il governo della moneta – sia stato trasferito (erroneamente? Ideologicamente? Incautamente?) ad un ente formalmente comunitario ma che, de facto, è tarato e piegato sugli interessi di una sola nazione estera. Tutto ciò non importa, e come tale non è degno né di attenzione né di ascolto.

L’avvenire di un’Europa unita - ma dipende anche come ci si unisce, perché ci si unisce e se è necessario unirsi - passa necessariamente e irreversibilmente dall’Euro – il che, in termini edilizi, nonché della scienza politica, equivale a dire che si costruisce una casa dal tetto e non dalle fondamenta -. Là fuori c’è la Cina, cosa pensano di fare gli staterelli europei - come se qualcuno negasse la possibilità di ulteriori forme di alleanza, cooperazione ecc…, ma soprattutto, già, come fanno gli altri 203 stati del mondo che non sono la Cina? - ? Ed è qui che entra in gioco il concetto di “egemonia” come “praticabilità del consenso”: la supremazia, la forza spontanea dell’idea valida va e deve andare oltre la realtà e riscuotere consenso. Si spiega così il concetto ripetuto da Draghi e da tutti coloro che - e nelle classi dirigenti come nei media sono tanti - condividono deterministicamente l’idea superiore. Si potrebbe utilizzare, in questo caso, un’espressione che autodesignava alle porte della I guerra mondiale tutti coloro che nutrivano altissime quanto illusorie aspettative ideali verso il significato della guerra: comunità di destino. Ecco, la comunità di destino per raggiungere questo destino - non definito tra l’altro - è pronta a passare sopra ogni intoppo fattuale e ad includere tutti, volenti o nolenti, in questa comunità pellegrina.

Ma tanto ormai, si dirà, ciò che è fatto è fatto. È evidente che seguendo questo pensiero si va in primis contro il principio fondamentale della concezione liberaldemocratica a noi proprio, cioè quello suddetto della libera scelta e quindi della reversibilità delle decisioni; in secondo luogo, in base a tale ragionamento, allora nel passato avremmo dovuto lasciare tutto come si era definito e non tentare di cambiare il corso degli eventi: quindi il nazismo in Germania, il fascismo in Italia, la colonizzazione ecc…

Ricapitolando: “Tutte le filosofie della storia che si muovono su posizioni radicali non corrispondono alla realtà” e tendono a riempire tutti “gli spazi di libertà umana individuale e collettiva”, che “sono limitati ma esistono”. Ergo sono pericolose e vanno maneggiate con cura. Ergo bisogna sognare, sì, ma ogni tanto svegliarsi.

Ricorda qualcosa tutto ciò?

“I fatti sono testardi” usava dire Lenin…
                                                                                          
                                                                                                            V. C.





[1] Scoppola P., Lezioni sul novecento, Laterza, Bari, 2010, p.75
[2] Scoppola P., Lezioni sul novecento, Laterza, Bari, 2010, p.75
[3] Scoppola P., Lezioni sul novecento, Laterza, Bari, 2010, p.75
[4] Scoppola P., Lezioni sul novecento, Laterza, Bari, 2010, pp. 97, 98

lunedì 6 gennaio 2014

La crisi del mercato nel mondo attuale: alcune riflessioni



La recente crisi economica legata alle note vicende dei mutui subprime ha messo in evidenza le vistose crepe del modello di mercato concorrenziale che si era edificato. La rinuncia della cultura giuridica alla concettualizzazione a priori, unita alla mera preoccupazione di intervenire esclusivamente a posteriori al fine di rimediare alle storture derivanti dalle disparità di potere contrattuale tra le parti, avevano plasmato un modello di mercato connotato dall’agire libero se non anarchico dell’autonomia privata, che è inesorabilmente precipitato nella faglia transcontinentale dei prodotti finanziari.

La prima conseguenza è stata la deflagrazione del principio formulato dal giudice Brandeis nel celebre libro dei primi anni del secolo scorso “Other’s People Money and How the Bankers Use it”, secondo il quale le informazioni sono il miglior disinfettante del mercato. L’idea è stata che la full disclosure delle informazioni relative agli strumenti finanziari sia, di per sé, il modo migliore per garantire l’efficiente allocazione delle risorse sul mercato dei capitali e per stimolare di conseguenza la creazione di ricchezza.

La storia si è incaricata di dimostrare che anche quell’ottimismo era malriposto. All’indomani della crisi ci si é accorti che quasi tutte le operazioni di cartolarizzazione dei mutui subprime sono avvenute negli Stati Uniti nel pieno rispetto delle leggi federali e che i titoli tossici circolavano accompagnati da documenti informativi accurati e dettagliati. Il vero è che tali documenti non venivano neppure letti o quanto meno non venivano capiti a causa delle loro complessità. Si è osservato che una rigorosa applicazione dell’analisi dei costi - benefici rende quanto meno dubbia la vantaggiosità di un’adeguata verifica delle informazioni: il costo per comprendere appieno le informazioni sembra eccedere il guadagno ottenuto.
La mistica di un’informazione ora sovrabbondante ora eccessivamente costosa si è tradotta in una burocratizzazione inefficiente del rapporto tra le parti. Si è raggiunto pertanto non una asimmetria dell’informazione ma una sorta di simmetria della disinformazione: la gran parte degli operatori che avevano negoziato i titoli tossici risultavano a loro volta acquirenti del tutto convinti della qualità dell’investimento.
Di conseguenza, la crisi del mercato ha evidenziato le deficienze di una libertà esercitata al di fuori di direttrici fissate dal legislatore.

Gli elementi cui attingere la soluzione si devono cogliere altrove, trascendendo la pura logica del mercato concorrenziale e ponendo mente alla funzionalizzazione dell’agire del singolo ad un interesse pubblico generale, che mira nuovamente alla regolazione del mercato e non si accontenta della regolazione nel mercato. Un mercato in senso non economicistico, come ordo naturalis, ma in senso giuridico-costruttivistico, come ordo legalis, conformato cioè alle regole del diritto positivo promosse dall’intervento pubblico correttivo.

La proposta che si vuole evidenziare non è quella di dismettere l’attuale modello di mercato invalso in Europa, bensì di correggerlo e rinforzarlo.
Una via potrebbe essere rintracciata nella Dottrina Sociale della Chiesa ed in particolare nei principi di solidarietà, libertà ed eguaglianza, che rappresentano, al di là della loro specifica condivisibilità, una prospettiva di speranza e uno stimolo quanto meno al miglioramento del modello di mercato esistente.
In un tale quadro, le parole di Papa Francesco[1] ci donano quella speranza, ricca di gioia, di cui l’uomo è affamato. Il Pontefice riconosce e plaude i successi che contribuiscono al benessere delle persone, per esempio nell’ambito sanitario, educativo e comunicativo, ma allo stesso tempo evidenzia che “non si può dimenticare che la maggior parte degli uomini e delle donne del nostro tempo vivono una quotidiana precarietà, con conseguenze funeste. Aumentano alcune patologie. Il timore, la disperazione si impadroniscono del cuore di numerose persone, persino nei paesi cosiddetti ricchi. La gioia di vivere frequentemente  si spegne, crescono la mancanza di rispetto e la violenza, l’iniquità diventa sempre più evidente.
Bisogna lottare per vivere e, spesso, per vivere con poca dignità.
Così come il comandamento non uccidere pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire no a un’economia dell’esclusione e delle iniquità. Questa economia uccide.
Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare”.
Si è dato inizio alla cultura dello scarto che, addirittura, viene promossa. Gli esclusi non sono sfruttati ma rifiuti, avanzi.

Una delle cause di questa situazione si trova nella relazione che si è stabilita con il denaro, poiché si accetta pacificamente il suo predominio sulle nostre società.
La  crisi finanziaria che attraversiamo ci fa dimenticare che alla sua origine vi è una profonda crisi antropologica: la negazione del primato dell’essere umano!
Abbiamo creato nuovi idoli. L’adorazione del vitello d’oro[2] ha trovato una nuova e spietata versione nel feticismo del denaro e nella dittatura di un’economia senza volto e senza uno scopo veramente umano.
Dietro questo atteggiamento si nascondono il rifiuto dell’etica e il rifiuto di Dio. All’etica si guarda di solito con un certo disprezzo. La si avverte come una minaccia, poiché condanna la manipolazione e la degradazione della persona. L’etica rimanda a un Dio che attende una risposta impegnativa, che si pone al di fuori delle categorie del mercato. Per queste, se assolutizzate, Dio è incontrollabile, non manipolabile, persino pericoloso, in quanto chiama l’essere umano alla sua piena realizzazione e all’indipendenza da qualunque tipo di schiavitù.
Il denaro deve servire e non governare!”.
I meccanismi dell’economia attuale promuovono un’esasperazione del consumo, ma risulta che il consumismo sfrenato, unito all’iniquità, danneggia doppiamente il tessuto sociale. In tal modo la disparità sociale genererà, prima o poi, una violenta reazione la cui risoluzione sarà alquanto complessa.
Riflettiamoci su.


                                                                                                  E.D.M


[1] Francesco, Evangelii Gaudium, Esortazione apostolica sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale, cap. 2
[2] Es. 32, 1-35