mercoledì 1 ottobre 2014

Le crisi, i conflitti, la sorpresa

Viviamo in un periodo di crisi e conflitti generalizzati. Ma non è una novità. I canali diplomatici non hanno ancora trovato i sentieri giusti e non si sa se e quando li troveranno, dunque il mondo assiso attende. Ma anche questa non è una novità. Un militante islamico per la guerra santa a volto coperto e con accento marcatamente inglese decapita disumanamente in differita mondiale un giornalista americano dopo l'altro. E qui lo sguardo dell'occidente si illumina di sorpresa. "Ma ha l'accento inglese! Ma è inglese? Non può essere inglese!". 
E invece sì, è inglese. E' un ex rapper londinese di origine egiziana, da molti anni ormai residente nella capitale in una casa del valore di circa un milione di sterline dicono le cronache. 
Ma non è solo. Qualche giorno prima un bimbo di sette anni impugna fieramente dai capelli una testa mozzata. L'ha portato con sè il padre jihadista. Sono australiani. Ma non sono soli. C'è anche una ex cantantucola americana. Dice che gli infedeli meritano tutti la decapitazione con un coltellaccio. Sembra che ci siano anche decine di italiani, sia d'origine che di seconda generazione. E canadesi. E francesi, tedeschi, belgi, altri inglesi. No, non sono stati rapiti, costretti alla conversione e ad arruolarsi per la jihad. L'hanno voluto loro, l'hanno scelto loro. L'occidente spalanca anche la bocca ora. 

Com'è possibile? Com'è possibile che figli delle zone più ricche, avanzate e progredite del mondo scelgano di loro spontanea volontà di rinnegare tutto ciò che li rendeva tali, comprese religione e famiglia, e di proiettarsi in una dimensione vecchia di secoli dominata dalla guerra permanente e dalla brutalità? E' possibile. Non solo è possibile. Succede. 
Legge dei grandi numeri? Un caso? Pochi squilibrati? Casi-limite? Certo, può essere; anzi, sarà così. Basta trovare qualcuno che ti indottrini per bene e ti faccia un pò di lavaggio del cervello e il gioco è fatto. Capita. Quante volte vediamo nelle nostre società persone che cedono a santoni, chiaroveggenti, sette. Non è poi così insolito. 
Se l'occidente dunque volesse chiudere la questione in modo semplice, veloce e indolore potrebbe farlo. Ma sicuramente non la esaurirà pienamente. Perchè forse ci possono essere altri motivi più profondi oltre la superficie; e scavare stanca. 

Possiamo provare a fare qualche ipotesi, ma ciò richiede un guardarsi allo specchio da parte dell'occidente. Uno specchio che potrebbe sembrare simile al ritratto di Dorian Grey, e l'occidente, o, in questo caso,  "Dorian", ci penserebbe bene due volte prima di specchiarvisi. 
Ma forse conviene molto più utilizzare uno scenario classico: genitori - figli. Attenzione: si profila un alto contenuto moraleggiante.

Sembra quasi che la società occidentale non conosca più i suoi figli e che, a loro volta, i figli non riconoscano più quella che sembrava essere la loro madre. E questo perchè non comunicano. I figli dell'occidente, ad un certo punto, raggiunta la facoltà di poter elaborare un proprio punto di vista rappresentativo, si interrogano su cosa abbia trasmesso loro la società in cui vivono. Spesso se gli abbia trasmesso qualcosa. E come nella più classica trama di un film americano per ragazzi in cui si narra di giovanotti benestanti alle prese con le vicende e problemi della maturità, molti scoprono di aver ricevuto poco o nulla dentro e molto fuori. 
Non valori a cui tenere, ma auto potenti; non principi in cui credere, ma palazzoni d'acciaio; non prospettive d'insieme, ma disagio individuale; non induzione alla speranza ma drenaggio continuo di quei pochi punti fermi che sembravano esistere. 
Mentre pressoché tutti commentano rassegnati il volto dello status quo, i più inicuri volgono lo sguardo altrove, dove la loro totale assenza può rimanere affascinata dalla presenza totale e totalizzante. Al pericolo del totalmente vuoto si somma, così, il pericolo del totalmente pieno. 

E' una storia vecchia, riassunta nella celebre massima che dice più o meno così: "per un uomo che è sempre stato privo di idee, l'avere un'idea può renderlo ubriaco". I figli occidentali dell'Isis sono probabilmente questo, persone stordite dal vuoto e ubriacate da una nuova pienezza. Un pò come la droga, l'alcool, il gioco d'azzardo, combattere per la jihad e sentirsi parte di una comunità di destino, di uno scopo più grande possono inebriare e far sentire vivi. Sentirsi vivi rinnegando tutto il passato e togliendo vite.
Ciò potrà sembrare una spicciola narrazione in funzione di una morale della favola di stampo vagamente pauperistico, se non addirittura indirettamente giustificatrice dei misfatti degli europei dell'Isis. L'occidente brutto e cattivo perchè ricco e tutto il resto povero e buono. 
No, sarebbe troppo semplice e fuorviante. E sarei il primo a non condividere un'impostazione del genere.
Il nocciolo della questione sta nel fatto che l'occidente, da qualche lustro, non sa più crescere. Non che non debba crescere, perchè sarebbe assurdo. 

Da un pò di tempo a questa parte, l'occidente ha deciso di avanzare e di tirar su i propri figli tralasciando o misconoscendo molto di quel bagaglio culturale, sociale e religioso che gli è proprio, che è sempre stato pilastro del suo progresso e che gli ha permesso di assurgere a modello di civiltà. Alcune basi come la fondamentale rilevanza del lavoro per la dignità e la realizzazione personali vengono sempre più calpestate, altre come l' importanza della dimensione sociale e comunitaria a partire dal nucleo familiare, inquinate. Altre ancora come un'istruzione formativa e la partecipazione civica, disincentivate o sminuite. Così facendo si potrà forse crescere economicamente - e come vediamo, neanche quello - ma non progredire integralmente. 
E quando capiterà che sempre più figli dell'occidente si volgeranno a sfogare in altri canali illusori e devianti queste necessità quasi ancestrali e antropologiche dell'uomo occidentale, troveremo probabilmente un occidente invecchiato, decadente e balbettante

                                                                                                          V. C. 

mercoledì 26 marzo 2014

Visione, sogno, politica

Quante volte udiamo la parola “sogno” nel dibattito politico odierno? Tante. “Sogniamo un’Italia così…”, “dobbiamo credere in questo sogno…”, “il sogno di un’Italia nuova…”, “il sogno dei giovani per l’Italia, per l’Europa…”, “non bisogna distruggere questo grande sogno…”, eccetera, eccetera, eccetera.

Rinsaviti dalla sbornia da logorrea politicante, la domanda sorge spontanea: è giusto, è adeguato utilizzare tale termine nel linguaggio politico? O non è forse errato dal punto di vista sostanziale e, agli estremi, fuorviante? Effettivamente, ciò potrebbe risultare vero. Perché in realtà, il grande assente non solo nell’ambito del linguaggio ma specialmente dal punto di vista fattuale, risulta essere il termine “visione”. Nella politica conta di più il sogno o la visione? Ma soprattutto, non sono tutto sommato la stessa cosa? Di fondo, no. Andiamo con ordine, aggiungendo come terzo “comodo” il termine “idea” e il suo significato, il concetto insito nella sua forma verbale.

“Visione”[1] viene dal latino videre e, di base, vuol dire “vedere”. Tralasciando il significato più trascendente, cioè quello di “scena, immagine straordinaria che si vede o si crede di aver visto in stato di estasi o per cause soprannaturali”, è già molto chiaro il significato propriamente fisiologico: “(la visione) è il processo di percezione degli stimoli luminosi, la capacità di vedere”. Partendo da ciò ed estendendo questo significato all’ambito più generale, la visione è, molto semplicemente, “l’azione, il fatto di vedere una cosa per esaminarla, trarne notizie utili”. Dilatando temporalmente questo processo, questa azione, la visione diviene in sintesi “un modo di vedere, un concetto, un’idea personale – dilato anche io e aggiungo: politica – che si ha in merito a qualcosa”. Il procedimento sembra dunque molto semplice: la luce illumina il bicchiere. Percepisco questo stimolo luminoso e dunque sono capace di vedere quell’oggetto. Ciò mi rende possibile esaminarlo e vedo che è una struttura poco alta e cava dentro. Da ciò avrò il concetto o l’idea che qualsiasi altro oggetto simile sarà quello che definisco “bicchiere”.

“Sogno”[2] proviene invece dal latino sŏmnium, a sua volta derivante da somnus, cioè “sonno”. Già qui vorrei sottolineare la differenza tra videre e somnus: l’essere svegli; tanto è vero che si dice “ho fatto un sogno” e non “ho visto un sogno”. Atteniamoci ai due significati più importanti e generali: “in senso ampio, ogni attività mentale, anche frammentaria, che si svolge durante il sonno; in senso più stretto e più comune, l’attività (mentale) più o meno nitida e dettagliata, con una struttura narrativa più o meno coerente; immaginazione vana, fantastica, di cose irrealizzabili”. Anche in questo caso il procedimento è semplice: durante il sonno sogno un essere alato sputa fuoco con zampe di cavallo e testa di leone che mi insegue e vuole uccidermi; io lo sconfiggo con una balestra con dardi-laser. Per me dormiente, tutto molto realistico.

Forse si sarà già inteso qual è lo spartiacque tra i due termini, ma il concetto di “idea” sarà ancora più utile.

“Idea”[3], dal greco ίδέα, cioè “aspetto, forma, apparenza”, a sua volta derivante dal verbo ίδέĩν, “vedere”. Dunque, idea e visione hanno già qualcosa in comune, cioè il “vedere”. È necessario, però, a questo punto, tralasciare tutto il discorso complessivo sull’idea riguardante l’argomento filosofico e platonico specialmente, poiché essenzialmente meriterebbe una lunga e specifica trattazione a parte, e non sono questi momento, sede e soggetto scrivente per farla. Aggiungo soltanto che l’idea platonica è molto simile alla definizione di idea come “attività della mente rivolta ad immaginare una possibile realtà (in contrapposizione alla realtà stessa)”. E sottolineo “(in contrapposizione alla realtà stessa)”. Tornando a noi, nel significato più ampio e generico, un’idea è “ogni singolo contenuto del pensiero, e, più in particolare, la rappresentazione di un oggetto alla mente, la nozione che la mente si forma e riceve di una cosa reale o immaginaria”. Esempi: l’idea di fuoco – cioè fiamma, calore, luce -, o l’idea di bene e male – più variabili soggettivamente -. Detto ciò, si apre una biforcazione: un’idea può essere “il prodotto dell’attività del pensiero, quindi un concetto che sta alla base, che è ispiratore, spunto per un’opera dell’ingegno o dell’arte, e soprattutto (per quello che ci interessa) la parte sostanziale, il contenuto di una dottrina da tradurre in realtà”. Dall’altro lato, l’idea può essere sempre un “prodotto della mente, ma dell’immaginazione, della fantasia, una credenza o speranza illusoria, cosa, in genere, non rispondente a realtà o verità”.

In sintesi, un’idea può essere “un modo di vedere e giudicare le cose, un’opinione, una intenzione, uno scopo”. Ma è importantissimo, fondamentale, sapere se essa ha come matrice di base una visione o un sogno. In modo particolarissimo nell’ambito della politica. Se l’architettura di un palazzo, una scultura, possono essere più o meno influenzate da una visione reale o da un sogno, ciò è molto meno vero per una “architettura” politica. Perché? Perché essa riguarda e coinvolge pesantemente la vita reale delle persone, di molte persone, e tutto ciò che ne consegue.

Nell’alveo politico è dunque necessario possedere un’idea. Ancor più necessario, a mio avviso, è possedere un’idea legata ad una visione politica e non ad un sogno politico. La visione, come suddetto, vuol dire “percepire gli stimoli che provengono dal reale”, e dunque “avere la capacità di vedere la realtà”. Da questa “capacità di vedere” discende la capacità di giudizio, di scelta. La visione precede l’idea di questa scelta, ciò che è propriamente “l’aspetto, la forma, l’apparenza” di questa “capacità di vedere”. L’idea derivante dalla “capacità di vedere”, dalla visione del reale, nella politica, è molto più veritiera e fondata rispetto all’idea derivante da un sogno di per sé molto più fallace e meno coerente.

Se la visione è “vedere” (videre) e l’idea è pure “vedere (ίδέĩν) e il sogno è “sonno” (somnus), se le parole hanno ancora un significato, è allora forse meglio fidarsi di chi vede e non di chi sogna, assegnando il sognare al suo giusto posto, che non è probabilmente il luogo politico.

Perché la differenza è sempre, in fondo, quella originaria: l’essere “svegli” o no.  


                                                                                             V. C.

[1] Voce “Visione”, Vocabolario online dell’Enciclopedia Treccani

[2] Voce “Sogno”, Vocabolario online dell’Enciclopedia Treccani
[3] Voce “Idea”, Vocabolario online dell’Enciclopedia Treccani

sabato 15 marzo 2014

Irreversibile

È sempre stato problematico, sia nella storia quanto nella vita di tutti i giorni, utilizzare il pesante aggettivo “irreversibile”. Questo perché, come generalmente risaputo, poche sono le cose irreversibili nel complesso delle vicende umane, le quali, in quanto tali, sono caratterizzate dalla stessa mutabilità dei soggetti che le vivono. Probabilmente, l’ultima espressione rimasta impressa ai più in cui si è manifestato l’aggettivo “irreversibile” è stata quella pronunciata dal governatore della Banca Centrale Europea Mario Draghi il 21 luglio 2012 e ribadita il 16 dicembre 2013: “l’Euro è un processo irreversibile”. Frase impegnativa, in quanto, come già anticipato, il parametro dell’irreversibilità è arduo da utilizzare già per le semplici vicende umane quotidiane, figuriamoci per grandi e complessi processi sociali, politici, economici.

In realtà, questa non è una novità. Basta infatti volgersi al più recente passato novecentesco per scovare almeno due esempi di piena fiducia nella “irreversibilità” degli eventi. La rivoluzione fascista, e in seguito quella nazista, erano destinate a cambiare radicalmente l’uomo attraverso un processo irreversibile di progressione verso “l’uomo nuovo”: non a caso, il III Reich era da considerarsi “millenario”, un qualcosa di definitivo, di, appunto, irreversibile; ancor di più e ancor prima, la rivoluzione socialista sarebbe dovuta diventare rivoluzione universale, destinata a coinvolgere tutti i paesi nel cammino verso il certo - e irreversibile – orizzonte comune: la presa del potere da parte del proletariato e la formazione della nuova società socialista. Entrambe le dottrine politiche, analizzate dalla storiografia tanto nelle loro differenze quanto nelle loro somiglianze – che non sono poche -, sono segnate da un indirizzo basato su un determinismo storico di fondo: le cose andranno così perche devono andare così e non possono non andare così.

Ma che c’entra questo discorso con l’esternazione di Draghi? Qualcosa c’entra, e per tentare di spiegarlo sarà comodo utilizzare il principale e più duraturo dei determinismi storici recenti: quello marxista-leninista. Gli eventi umani, per Marx, Lenin e per chi poi seguirà le loro orme, non possono che evolvere in una direzione: la presa di coscienza del proletariato della propria forza e il rivolgimento dello status quo borghese della società attraverso l’imposizione della nuova società socialista.

Al procedimento leninista di imposizione violenta della “dittatura del proletariato”, si manifesta in Italia, ad opera di Antonio Gramsci, il concetto di “egemonia”. A questo punto è utile citare lo storico Pietro Scoppola: “se la dittatura è imposizione, l’egemonia è un fatto spontaneo che nasce da una supremazia. All’imposizione rivoluzionaria si sostituisce così un processo fondato sulla forza spontanea di un’idea valida, sulla praticabilità del consenso[1]”. La domanda che, giustamente, lo storico si pone è: “il concetto di egemonia è sufficiente a conciliare la concezione marxista-leninista con i valori della tradizione liberaldemocratica? Nella visione di Gramsci l’egemonia è funzionale a un processo di trasformazione irreversibile. Il passaggio dalla società capitalistica a quella socialista non è un processo reversibile per volontà dei cittadini, ma è legato a un determinismo storico[2]”.

La conclusione, dunque, non può che essere una: “La riflessione gramsciana sull’egemonia non è sufficiente a creare una saldatura fra la concezione marxista-leninista e quella liberaldemocratica fondata essenzialmente sul principio della libera scelta e quindi della reversibilità delle decisioni. La democrazia esiste laddove un governo può essere sconfessato, messo in minoranza, cacciato. È questo il punto di arrivo di tutto il processo di sviluppo del liberalismo[3]”. A questa, qualche pagina più avanti, si aggiunge una conclusione di carattere più generale: “ … siamo spesso obbligati a riconoscere degli stati di necessità, ma gli spazi di libertà degli uomini (…) non sono né totali, né inesistenti. Tutte le filosofie della storia che si muovono su posizioni radicali non corrispondono alla realtà. Gli spazi di libertà umana individuale e collettiva, sono limitati ma esistono. (…) nella storia umana esistono limiti oggettivi alla libertà d’iniziativa e di scelta, condizionamenti che creano situazioni di necessità. (…) riconoscere che esistono stati di necessità non significa negare che ci siano dei costi[4]”.

Tornando, ora, alla frase pronunciata da Draghi, essa c’entra e interessa proprio perché sintomatica di un modo di pensare ed agire molto simile a quello che si è sopra descritto grazie alle parole di Scoppola. Un procedere cioè indirizzato, guidato, fissato da una filosofia della storia radicale, da un lampante determinismo storico.

Negli ultimi anni la realtà effettiva ha evidenziato in tutta la sua crudezza le svariate problematiche connesse all’adozione di un’unione monetaria tra paesi considerevolmente diversi. Numerosi ed autorevoli critici, vecchi e nuovi, (tra i quali si annoverano sette premi Nobel) spiegano l’importanza di prendere coscienza degli errori, di poter tornare sui propri passi e di poter cambiare le scelte, riscuotendo sostanziosi consensi nelle opinioni pubbliche nazionali sempre più desiderose di informazioni affidabili che riescano a spiegare con cognizione di causa le ragioni profonde di questa inspiegabile – e quasi esclusivamente europea – depressione infinita. Ciò accade, ma non conta.

Il percorso disegnato è, infatti, chiaro: l’Euro è irreversibile poiché è l’unico elemento che da sostanza alla parola “Europa”. Non importa che la parola sia la sintesi verbale secolare di un’entità geografica, sociale, religiosa, culturale, politica. Non importa che ben 10 stati su 28 dell’Unione Europea non facciano parte dell’unione monetaria. Non importa che un potere che tradizionalmente definiva il nucleo della sovranità e dell’indipendenza statuale moderna – come il governo della moneta – sia stato trasferito (erroneamente? Ideologicamente? Incautamente?) ad un ente formalmente comunitario ma che, de facto, è tarato e piegato sugli interessi di una sola nazione estera. Tutto ciò non importa, e come tale non è degno né di attenzione né di ascolto.

L’avvenire di un’Europa unita - ma dipende anche come ci si unisce, perché ci si unisce e se è necessario unirsi - passa necessariamente e irreversibilmente dall’Euro – il che, in termini edilizi, nonché della scienza politica, equivale a dire che si costruisce una casa dal tetto e non dalle fondamenta -. Là fuori c’è la Cina, cosa pensano di fare gli staterelli europei - come se qualcuno negasse la possibilità di ulteriori forme di alleanza, cooperazione ecc…, ma soprattutto, già, come fanno gli altri 203 stati del mondo che non sono la Cina? - ? Ed è qui che entra in gioco il concetto di “egemonia” come “praticabilità del consenso”: la supremazia, la forza spontanea dell’idea valida va e deve andare oltre la realtà e riscuotere consenso. Si spiega così il concetto ripetuto da Draghi e da tutti coloro che - e nelle classi dirigenti come nei media sono tanti - condividono deterministicamente l’idea superiore. Si potrebbe utilizzare, in questo caso, un’espressione che autodesignava alle porte della I guerra mondiale tutti coloro che nutrivano altissime quanto illusorie aspettative ideali verso il significato della guerra: comunità di destino. Ecco, la comunità di destino per raggiungere questo destino - non definito tra l’altro - è pronta a passare sopra ogni intoppo fattuale e ad includere tutti, volenti o nolenti, in questa comunità pellegrina.

Ma tanto ormai, si dirà, ciò che è fatto è fatto. È evidente che seguendo questo pensiero si va in primis contro il principio fondamentale della concezione liberaldemocratica a noi proprio, cioè quello suddetto della libera scelta e quindi della reversibilità delle decisioni; in secondo luogo, in base a tale ragionamento, allora nel passato avremmo dovuto lasciare tutto come si era definito e non tentare di cambiare il corso degli eventi: quindi il nazismo in Germania, il fascismo in Italia, la colonizzazione ecc…

Ricapitolando: “Tutte le filosofie della storia che si muovono su posizioni radicali non corrispondono alla realtà” e tendono a riempire tutti “gli spazi di libertà umana individuale e collettiva”, che “sono limitati ma esistono”. Ergo sono pericolose e vanno maneggiate con cura. Ergo bisogna sognare, sì, ma ogni tanto svegliarsi.

Ricorda qualcosa tutto ciò?

“I fatti sono testardi” usava dire Lenin…
                                                                                          
                                                                                                            V. C.





[1] Scoppola P., Lezioni sul novecento, Laterza, Bari, 2010, p.75
[2] Scoppola P., Lezioni sul novecento, Laterza, Bari, 2010, p.75
[3] Scoppola P., Lezioni sul novecento, Laterza, Bari, 2010, p.75
[4] Scoppola P., Lezioni sul novecento, Laterza, Bari, 2010, pp. 97, 98

lunedì 6 gennaio 2014

La crisi del mercato nel mondo attuale: alcune riflessioni



La recente crisi economica legata alle note vicende dei mutui subprime ha messo in evidenza le vistose crepe del modello di mercato concorrenziale che si era edificato. La rinuncia della cultura giuridica alla concettualizzazione a priori, unita alla mera preoccupazione di intervenire esclusivamente a posteriori al fine di rimediare alle storture derivanti dalle disparità di potere contrattuale tra le parti, avevano plasmato un modello di mercato connotato dall’agire libero se non anarchico dell’autonomia privata, che è inesorabilmente precipitato nella faglia transcontinentale dei prodotti finanziari.

La prima conseguenza è stata la deflagrazione del principio formulato dal giudice Brandeis nel celebre libro dei primi anni del secolo scorso “Other’s People Money and How the Bankers Use it”, secondo il quale le informazioni sono il miglior disinfettante del mercato. L’idea è stata che la full disclosure delle informazioni relative agli strumenti finanziari sia, di per sé, il modo migliore per garantire l’efficiente allocazione delle risorse sul mercato dei capitali e per stimolare di conseguenza la creazione di ricchezza.

La storia si è incaricata di dimostrare che anche quell’ottimismo era malriposto. All’indomani della crisi ci si é accorti che quasi tutte le operazioni di cartolarizzazione dei mutui subprime sono avvenute negli Stati Uniti nel pieno rispetto delle leggi federali e che i titoli tossici circolavano accompagnati da documenti informativi accurati e dettagliati. Il vero è che tali documenti non venivano neppure letti o quanto meno non venivano capiti a causa delle loro complessità. Si è osservato che una rigorosa applicazione dell’analisi dei costi - benefici rende quanto meno dubbia la vantaggiosità di un’adeguata verifica delle informazioni: il costo per comprendere appieno le informazioni sembra eccedere il guadagno ottenuto.
La mistica di un’informazione ora sovrabbondante ora eccessivamente costosa si è tradotta in una burocratizzazione inefficiente del rapporto tra le parti. Si è raggiunto pertanto non una asimmetria dell’informazione ma una sorta di simmetria della disinformazione: la gran parte degli operatori che avevano negoziato i titoli tossici risultavano a loro volta acquirenti del tutto convinti della qualità dell’investimento.
Di conseguenza, la crisi del mercato ha evidenziato le deficienze di una libertà esercitata al di fuori di direttrici fissate dal legislatore.

Gli elementi cui attingere la soluzione si devono cogliere altrove, trascendendo la pura logica del mercato concorrenziale e ponendo mente alla funzionalizzazione dell’agire del singolo ad un interesse pubblico generale, che mira nuovamente alla regolazione del mercato e non si accontenta della regolazione nel mercato. Un mercato in senso non economicistico, come ordo naturalis, ma in senso giuridico-costruttivistico, come ordo legalis, conformato cioè alle regole del diritto positivo promosse dall’intervento pubblico correttivo.

La proposta che si vuole evidenziare non è quella di dismettere l’attuale modello di mercato invalso in Europa, bensì di correggerlo e rinforzarlo.
Una via potrebbe essere rintracciata nella Dottrina Sociale della Chiesa ed in particolare nei principi di solidarietà, libertà ed eguaglianza, che rappresentano, al di là della loro specifica condivisibilità, una prospettiva di speranza e uno stimolo quanto meno al miglioramento del modello di mercato esistente.
In un tale quadro, le parole di Papa Francesco[1] ci donano quella speranza, ricca di gioia, di cui l’uomo è affamato. Il Pontefice riconosce e plaude i successi che contribuiscono al benessere delle persone, per esempio nell’ambito sanitario, educativo e comunicativo, ma allo stesso tempo evidenzia che “non si può dimenticare che la maggior parte degli uomini e delle donne del nostro tempo vivono una quotidiana precarietà, con conseguenze funeste. Aumentano alcune patologie. Il timore, la disperazione si impadroniscono del cuore di numerose persone, persino nei paesi cosiddetti ricchi. La gioia di vivere frequentemente  si spegne, crescono la mancanza di rispetto e la violenza, l’iniquità diventa sempre più evidente.
Bisogna lottare per vivere e, spesso, per vivere con poca dignità.
Così come il comandamento non uccidere pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire no a un’economia dell’esclusione e delle iniquità. Questa economia uccide.
Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare”.
Si è dato inizio alla cultura dello scarto che, addirittura, viene promossa. Gli esclusi non sono sfruttati ma rifiuti, avanzi.

Una delle cause di questa situazione si trova nella relazione che si è stabilita con il denaro, poiché si accetta pacificamente il suo predominio sulle nostre società.
La  crisi finanziaria che attraversiamo ci fa dimenticare che alla sua origine vi è una profonda crisi antropologica: la negazione del primato dell’essere umano!
Abbiamo creato nuovi idoli. L’adorazione del vitello d’oro[2] ha trovato una nuova e spietata versione nel feticismo del denaro e nella dittatura di un’economia senza volto e senza uno scopo veramente umano.
Dietro questo atteggiamento si nascondono il rifiuto dell’etica e il rifiuto di Dio. All’etica si guarda di solito con un certo disprezzo. La si avverte come una minaccia, poiché condanna la manipolazione e la degradazione della persona. L’etica rimanda a un Dio che attende una risposta impegnativa, che si pone al di fuori delle categorie del mercato. Per queste, se assolutizzate, Dio è incontrollabile, non manipolabile, persino pericoloso, in quanto chiama l’essere umano alla sua piena realizzazione e all’indipendenza da qualunque tipo di schiavitù.
Il denaro deve servire e non governare!”.
I meccanismi dell’economia attuale promuovono un’esasperazione del consumo, ma risulta che il consumismo sfrenato, unito all’iniquità, danneggia doppiamente il tessuto sociale. In tal modo la disparità sociale genererà, prima o poi, una violenta reazione la cui risoluzione sarà alquanto complessa.
Riflettiamoci su.


                                                                                                  E.D.M


[1] Francesco, Evangelii Gaudium, Esortazione apostolica sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale, cap. 2
[2] Es. 32, 1-35

venerdì 23 agosto 2013

Sull'articolo 1 della Costituzione


Articolo 1 della Costituzione:

“(1)L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. (2)La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

Per un grande giurista italiano, Costantino Mortati, questa disposizione sarebbe la supernorma costituzionale, a cui si riconducono tutti i principi contenuti nella Carta. Sul lavoro, sulla democrazia, sull’Italia stessa, credo ci sia pochissimo da aggiungere a quanto già detto da tanti.

Pur non essendo molto originale, mi permetto di proporre una riflessione sui “limiti” e sulle “forme” che la Costituzione impone al popolo di seguire nell’esercizio della sovranità.

Curiosità: il primo articolo è pieno di doveri, non di diritti. Questa frase forse è mendace, ma solo perché qualunque principio si traduce in diritto per qualcuno, e dovere per altri. Ma certamente il rispetto di quelle forme è un chiaro avvertimento pronunciato con la voce di Sordi alla moltitudine italica in bianco e nero: “Popolo! Tu vuoi governare? Vuoi essere sovrano? E allora rispetta l’ordine costituito, brutto popolo che non sei altro!”. Insomma, è come un intimo richiamo che il popolo rivolge a se stesso (oltre ad essere dal punto di vista giuridico la base del diritto italiano stesso). Tant’è che Calamandrei dirà: “Le dittature sorgono non dai governi che governano e durano, ma dall'impossibilità di governare dei governi democratici”. Dei mille significati che possiamo attribuire a questa frase, ne propongo uno: se non rispetti le procedure non governi, se non governi non duri, se non duri cedi il fianco all’antidemocrazia.

Potremmo citarne tanti di limiti e forme di esercizio della sovranità (forma di stato e di governo, rispetto del procedimento legislativo, del ruolo della magistratura, del ruolo del Parlamento e del governo, delle attribuzioni tra poteri dello Stato, delle disposizioni fiscali e tributarie, esercizio legittimo del potere costituito in tutte le sue forme, scongiurare a costo della carriera personale l’abuso di potere, riferirsi solo ed esclusivamente al diritto statuale per risolvere le proprie istanze ecc… ).

Ma torniamo alla governabilità. Il punto centrato da Calamandrei è sconvolgentemente verificabile in Italia. Berlusconi è stato accusato di regime, di instaurare una “larvata dittatura” sempre di Calamandreiana memoria, e qui non ci interessa approfondire la vicenda. Ma cosa accade quando in Italia si susseguono i Governi, quando movimenti di individui si muovono movimentando idee, desideri, passioni, voglie e infine istinti della plebe? Sì, voglio giocare con le parole. Accade che si origina un movimento verso il basso, come con i cicloni o meglio con lo sciacquone: movimento che poi è sinonimo di moto, che in italiano significa anche insurrezione, sommossa, tumulto. Una quasi rivoluzione.

Insomma, qualche buffone potrebbe convincerci con una “larvata rivoluzione” tanto quanto (forse, lo vedranno i posteri) il berlusconismo di inizio secolo ha giocato le sue carte in una “larvata dittatura”. 

Resta un aspetto da rilevare, lasciando ai commenti l’approfondimento dei temi solo lambiti in questo contributo, e scusandomi in anticipo per l’eventuale poca sensibilità utilizzata; se è valido in politica il c.d. principio di castrazione, secondo cui una libertà è esercitabile se da essa discendono delle precise responsabilità ben chiare a chi la esercita, potrebbe essere vero che la sovranità è esercitata dal popolo esclusivamente se il popolo è consapevole delle forme e dei limiti? Insomma, il popolo che vota e partecipa, ha un riscontro dell’esercizio della sovranità, oppure è come un povero eunuco?

Pensiamoci.

                                                                                              P.B.