In una intervista del 1982 di Enzo Biagi
nella trasmissione «Questo Secolo» Indro Montanelli ebbe a dire con la sua
solita franchezza: «Le democrazie non vengono mai uccise… Le democrazie si
suicidano». Faceva riferimento alle sorti della democrazia italiana del 1921-22
e a Mussolini, il quale, sempre secondo il giornalista di Fucecchio, si limitò
solamente a seppellirla. Certamente Montanelli non analizza quel contesto da
storico puro, né pretende di evidenziarne l’estrema complessità, ma fornisce
una visione da perfetto cronista e testimone
di eventi così particolari e decisivi nella storia italiana. Sempre
nell’intervista egli osservava come la democrazia di quegli anni si fosse
ridotta ad un «grosso carnevale», priva com’era di una stabilità governativa e di
forze politiche capaci di comprendere l’effettiva portata delle trasformazioni
del primo dopoguerra.
Ora una situazione di evidente
ingovernabilità si ripropone anche oggi con tantissime differenze rispetto a
quel contesto. Il risultato delle recenti
elezioni legislative evidenzia
palesemente come il «grosso carnevale» dell’odierna politica italiana abbia raggiunto dei livelli abbastanza drammatici.
Ancor di più, esso risalta il fallimento di un ventennio e dimostra come in
realtà il Paese non si sia ancora ripreso dal crollo della cosiddetta «prima
Repubblica», dalla scomparsa dei partiti e delle culture politiche che hanno
fondato la Repubblica. Da un sistema ormai logoro ma riformabile come quello
dei partiti si è passati a quello dei partiti di plastica o azienda, ad
personam, ovvero dei contenitori che raccolgono di tutto e di più, il cui unico
criterio di appartenenza è misurato dalla convenienza che elargisce il capo
azienda di turno (anche se uno in particolare svetta un po’ su tutti….). Per
il bilancio di questo salto
«qualitativo» non c’è bisogno di aspettare l’«ardua sentenza» dei posteri, esso
è già sotto gli occhi di tutti: un Paese asfissiato da un ingente debito
pubblico, dai disagi sociali come la precarietà del lavoro giovanile e non solo,
incapace di affrontare le sfide che impone il mondo globalizzato; un Paese
senza prospettive in cui ogni governo si sente in dovere di approvare una riforma
della scuola e dell’università che puntualmente smentisce la precedente
senza nessun tipo di organica progettualità e senza nessun risultato effettivo,
visto il progressivo peggioramento dei servizi offerti. Un Paese che si è
ridotto a selezionare la propria classe dirigente nel migliore dei casi nei Cda
di qualche azienda e o banca pubblica o privata (in Italia la differenza si
percepisce poco), oppure in qualche palco televisivo, o nelle varie feste in case e ville private (si potrebbe continuare
con l’elenco ma, per decenza, non ci sembra il caso).
Negli anni 92-93-94’ si parlava di
abbattere la «partitocrazia», accusata di impedire una trasparenza nella scelta
dell’esecutivo: «E’ giusto che siano i cittadini a decidere chi governa e non i
partiti». Bene, è evidente che questo risultato non sia stato propriamente
raggiunto dato che dopo vent’anni gli italiani hanno votato per ben tre volte
con un sistema elettorale, il porcellum, che non garantisce né la
governabilità, tanto meno la rappresentanza. Infatti, in sette anni ci sono
state tre legislature, tre elezioni, di
cui ben due anticipate, con tre governi (Prodi, Berlusconi, Monti) tutti caduti
prima della naturale scadenza. Per quanto riguarda la rappresentanza, invece,
l’Italia è l’unica grande democrazia occidentale in cui il cittadino non vota
direttamente il proprio rappresentante in parlamento, ma si limita ad approvare
un listino bloccato, messo in piedi dai vertici dei contenitori, nel migliore
dei casi, o dal capo azienda di turno (e c’è sempre uno che spicca su tutti…).
Ancora più grave, l’attuale sistema di voto permette ad una coalizione che non
raggiunge nemmeno il 30% dei consensi (è il caso delle ultime elezioni) di
ottenere il 55% della ripartizione dei seggi alla Camera dei deputati (l’on. Acerbo aveva
osato un po’ di più, al 65%). In otto anni nessuno è riuscito (forse per la
mancanza di una effettiva volontà) a cambiare nemmeno un
cavillo di questo capolavoro democratico-rappresentativo.
Ora, pare del tutto scontato, ma non
giustificato, che nella voglia di liberarsi da questo «grosso carnevale» vi
possano essere simpatie per delle
tentazioni quali la tecnocrazia montiana o peggio ancora il populismo
qualunquista grillino. D’altronde visto il successo di quest’ultimo, sarebbe
auspicabile che le principali forze politiche, in un estremo sussulto di
decenza, di decoro e di amore per le istituzioni democratiche e repubblicane,
si coalizzassero almeno per un governo di scopo che si occupasse di legge
elettorale e delle questioni economiche più urgenti. Tra i vari tentativi di «abboccamento»
e di marce nei tribunali tale prospettiva sembra ancora lontana dal
concretizzarsi, lasciando un ampio margine di manovra al movimento grillino che,
a suo dire, punta al 100% del parlamento.
Forse è meglio così, forse è necessaria
una scossa che ridesti una Paese provato come il nostro e troppo abituato al «carnevale». Sembrano
attuali allora le parole di Gobetti nel suo celebre «Elogio della ghigliottina»
che rispecchiano il clima di
insofferenza e in un certo senso di delusione nei confronti di una società e di
una classe politica all’indomani dell’avvento del fascismo, chiuse nel
parassitismo, nelle corporazioni, nei privilegi, nelle urla del non governo, ma
aperte al fascino suggestivo di paternalistici miracoli e d’improbabili uomini
della provvidenza: «Eppure, siamo sinceri fino in fondo, c’è chi ha atteso
ansiosamente che venissero le persecuzioni personali perché dalle sofferenze
rinascesse uno spirito, perché nel sacrificio dei suoi sacerdoti questo popolo
riconoscesse se stesso. C’è stato in noi, nel nostro opporsi fermo, qualcosa di
donchisciottesco. Ma si sentiva pure una disperata religiosità. Non possiamo
illuderci di aver salvato la lotta politica: ne abbiamo custodito il simbolo e
bisogna sperare (ahimè, con quanto scetticismo) che i tiranni siano tiranni,
che la reazione sia reazione, che ci sia chi avrà il coraggio di levare la
ghigliottina, che si mantengano le posizioni sino in fondo. Si può valorizzare
il regime; si può cercare di ottenere tutti i frutti: chiediamo le frustate
perché qualcuno si svegli, chiediamo il boia perché si possa veder chiaro».
Vedremo.
V.R.