sabato 23 febbraio 2013

Politicità del cristianesimo oggi


estratti di Augusto Del Noce[1]


A.Del Noce
Il problema di una politicità del cristianesimo oggi non è semplicemente il problema di una politica che garantisca gli istituti cristiani. È invece il problema se il cristianesimo possa venire incontrato a partire dalle antinomie politiche di oggi. Non si tratta cioè di un patrimonio da difendere ma di una forma di vita da ritrovare.

L’odierno problema politico dell’Europa sembra potersi enunciare come problema del superamento dei totalitarismi. Formula che può sembrare fin troppo semplice, tante brave persone credono che i totalitarismi siano superati da decenni e la democrazia divenuta forma politica essenziale dell’Europa. Eppure l’osservazione spassionata dell’Europa occidentale del 1915-1945 porta alla conclusione sconfortante della vittoria generale delle forme totalitarie[2].


Questa l’osservazione spassionata: due forme totalitarie sono state sconfitte, ma questo non vuol dire affatto che non possano sorgerne altre.

Seconda osservazione sconfortante: risorgono ora in ogni Paese d’Europa quelle forme socialdemocratiche che non hanno saputo resistere all’urto. C’è da domandarsi se molti tra gli esperti della politica non pensino a ridurre la crisi europea tra le due guerre a una crisi di moralità. E in forma appena leggermente più critica quanti non pensano di ridurre nazismo e fascismo a esasperazioni del nazionalismo o a nazionalismo senz’altro, che esasperazione sembra pleonasmo; spiegazione moralistica anche questa, venendo considerato il nazionalismo come l’immoralità trasportata nei rapporti tra nazioni. Ma forse la domanda è se si possa veramente parlare di nazionalismo come sostantivo; e se il nazionalismo non esista concretamente che come qualificativo di determinate politiche che nazionalistiche diventano necessariamente per l’importanza di trasformare il proprio paese in una comunità, altrimenti che mediante una tensione contro l’esterno; il nazionalismo sega così il limite di debolezza di una linea politica. Il che sembrerebbe confermato dalla mitologizzazione del passato caratteristica di ogni forma nazionalista, mitologizzazione che stabilisce il nesso culturale di nazionalismo e decadentismo; e confermato per altra via dalla tesi che Gaetano De Sanctis svolge nella sua “Storia dei Romani”, mostrando come l’impero romano non si sia formato in esecuzione di un prestabilito piano imperialistico, e sulla base di necessità difensive piuttosto che offensive.


Nella spiegazione moralistica tutto è certo estremamente chiaro: “il totalitarismo maschera la volontà di un governante che pensa all’interesse proprio o della sua cricca piuttosto che al bene comune”. Ma una simile tesi non sa vincere l’ostacolo di questa pur tanto semplice riflessione: che per il dittatore l’interesse comune coincide con l’interesse proprio, come nell’interesse del fabbricante di automobili rientra il costruir buone vetture e che perciò egli non può non agire per quel che egli pensa bene comune: la critica deve perciò appuntarsi sul modo in cui egli pensa al bene comune. Altrimenti detto, il peccato dei totalitarismi è teoretico e non morale; e il bene comune non è affatto un concetto normativo; ed è anzi nel giudizio pratico politico concreto un verbalismo di nessuna utilità.


I totalitarismi non hanno la loro radice in volontà malvagie, ma in un determinato modo di prospettare la funzione politica nella vita dello spirito; cioè in una determinata intuizione dell’uomo, vissuta anche se non chiaramente passata; e vissuta talvolta in un modo particolare da rendere impossibile il suo riconoscimento in una formulazione espressa.

Più specifica è un’altra interpretazione che si va introducendo in certi ambienti culturali. Un qualsiasi regime diventa totalitario quando si sente debole. In tal modo la libertà come metodo cessa di avere un valore assoluto, diventa uno strumento di cui una classe si serve; come maschera del suo prepotere, se anche può servire alla classe avversa per la preparazione di una rivoluzione liberatrice. Di conseguenza la storia di prospetta come un succedersi di dittature di classi nella linea segnata dal manifesto comunista; sino all’ultima e liberatrice dittatura, quella del proletariato, che stabilisce le condizioni per la libertà effettiva. Questo ragionamento rappresenta una delle tante intrusioni inconsapevoli del materialismo storico. E tende ora a diffondersi anche in ambienti non comunisti grazie all’insidiosa moda di sostituire il concetto di liberazione, come concretarsi dinamico della libertà, a quello di libertà.


Le radici vere del totalitarismo  stanno nell’elevazione della politica a religione. Infatti la caratteristica  maggiore del nostro tempo è la tendenza alla considerazione del valore politico come valore ultimo e definitiva istanza rispetto a cui tutti gli altri valori devono venire giudicati; e l’ideale della cultura sarà quello di una cultura che non debba più consolare delle sofferenze ma eliminarle; ossia di una cultura “servizio della società”, che perciò non potrà avere come criterio valutativo che la volontà politica.

Il nesso tra la tesi del valore politico come valore ultimo e la politica totalitaria. L’uomo in una tale prospettiva è in rapporto soltanto con la società: il suo modo di pensare dipende dal suo essere sociale. Non nel senso ambientale del vecchio sociologismo; ma in quello che le idee sono idee di un soggetto in rapporto soltanto con altri uomini, di un soggetto in una determinata situazione sociale. L’uomo dei totalitarismi capovolge l’uomo platonico-agostiniano: non è la presenza nella mia coscienza di un principio ideale, che provoca la mia reazione al mondo; al contrario, le idee non sono che l’articolarsi del mio senso di reazione al mondo, come soggetto impegnato in una determinata situazione: sono perciò pratiche per la loro essenza, strumenti del mio bisogno di conversare o di innovare. All’unità degli uomini come figli di Dio succede la loro distinzione come uomini di classi, razze, nazioni differenti, e la lotta come espressione di tale distinzione.

Se le idee sono idee di un uomo in una determinata situazione sociale non si potrà cangiare l’uomo se non cangiando la società; il cambiamento dell’uomo sarà conseguenza del cangiamento della società e non l’inverso; il processo di azione dell’uomo dovrà andare, per così dire, dall’esterno all’interno. Quindi al rapporto di persuasione succede necessariamente il rapporto di violenza.


È in relazione a questa opposizione che si potrebbe intendere quale debba essere il senso odierno di democrazia. Questa non può essere più sufficientemente caratterizzata come “governo dal basso” contro “governo dall’alto”, o governo della maggioranza e simili. Non solo si deve insistere sull’essenzialità del rispetto delle minoranze, ma fondarne il concetto sull’esigenza fondamentale del rispetto del singolo. Ossia democrazia dovrà essere intesa come quel regime in cui viene reso impossibile a ognuno l’agire su altri se non in termini di persuasione; o. definizioni equivalenti che fanno meglio vedere la virtualità della prima forma, regime in cui ogni soggetto viene considerato come soggetto di persuasione, cioè come persona o regime in cui ogni singolo deve potersi considerare anche come fine e nessuno come unico fine dell’intero processo sociale. Anche la riforma economica deve essere pensata e attuata, nei suoi scopi come nei suoi metodi, in relazione a questa fondamentale definizione.

Se a fondamento dunque dei totalitarismi non sta malvagità di uomini o debolezza di classi ma un’idea dell’uomo, opporsi a essi sarà soltanto possibile rivendicando nell’uomo un principio spirituale indipendente dalla società (solo così l’uomo individuale non sarà più l’uomo di una società, ma sarà per sé - persona - e costituirà proprio come uomo individuo il fine ultimo dell’ordinamento sociale nella linea democratico-personalistica). Affermando in una parola l’idea cristiana dell’uomo.


Ciò porterebbe pure a un problema filosofico – intimo compenetrarsi oggi di filosofia e di politica perché la crisi politica attuale è l’espressione di una crisi metafisica. Il tema fondamentale della problematica filosofica di oggi è quello della libertà dell’uomo – e se il Dio trascendente potrà essere riaffermato sarà unicamente mostrando come l’uomo possa affermarsi libero soltanto nel suo riconoscimento.

Ma rimaniamo nei termini dell’attualità politica. La sua forma implica che non si possa essere oggi politicamente cristiani semplicemente rivendicando il diritto di esser tali o richiedendo la libertà di una confessione positiva o il permanere di certi istituti morali e giuridici; ma invece affermando la libertà spirituale di ogni individuo. Ciò importa pure in un (eventuale) partito cristiano la rigorosa non confessionalità: come difesa dei valori morali e umani del cristianesimo (la realtà della persona), indipendentemente dall’inquadramento filosofico e teologico in cui si cerchi di essi la consapevolezza ultima.

C’è un movimento di convergenza oggi di cristianesimo e di liberalismo. Si è visto come la funzione liberale spetti oggi al cristianesimo. Ma i cristiani devono abbandonare il presupposto che l’affermazione dell’uomo cristiano coincida con quella del ritorno all’uomo medievale: e ai liberali si richiede consapevolezza del nucleo cristiano delle loro idee.


Mi sono limitato a riportare brevi passaggi del pensiero di Augusto Del Noce che ritenevo calzanti alla luce di tutto ciò che è stato detto e ridetto durante questa breve, anche se intensa, campagna elettorale. Tengo ad evidenziare la necessità di riproporre al centro della politica del nostro Paese l’ ”idea cristiana di uomo”. Appello rivolto a tutte le forze politiche in campo, che tra i loro attacchi reciproci, spesso dimenticano il pilastro della società. “Chi ha orecchie per intendere…”.

                                                                                             E.D.M.





[1] Estratti da “COSTUME”, a.II, n. 1, gennaio-febbraio 1946, pp. 59-68.


[2] La stessa forma democratica realizzata in Francia che non ha retto all’urto del’40.

martedì 12 febbraio 2013

Populismo, populismi: Monti e Grillo

IL POPULISMO E LA DEMAGOGIA
Differentemente da quanto molti pensano il termine "populismo", pur usato e stra-abusato, non ha un significato ben preciso, o comunque unico. In effetti, spesso accade che si tenti di spiegarne il significato in modo esaustivo ma si finisce con lo sbiascicare parole un pò a caso. Gli stessi politologi e scienziati politici non sono concordi nel darne una definizione certa, ma di fatto affermano che ve ne siano diverse a seconda del contesto e dell'oggetto per cui si usa il termine.
Nella nostra prassi politica "populismo" è perlopiù sinonimo di "demagogia", questo sì termine ben definito dalla stessa etimologia: demos, cioè popolo e agein, cioè trascinare.
Trascinare il popolo dunque. Ma dove?
Il realtà il demagogo non ha una destinazione precisa verso cui trascinare il popolo, l'unico scopo è accaparrarsi il suo favore affinchè non lo "trascini" qualcun'altro. E' insomma un tentativo di persuadere il popolo un pò come tramite l'uso della retorica, anche se vi è tra esse una differenza sostanziale. Se la retorica è una vera e propria arte, cioè la capacità attraverso il potere del linguaggio di riuscire a convincere sia a livello emotivo che razionale qualcuno a condividere le proprie tesi o conclusioni (indipendentemente da un giudizio di valore su di esse), la demagogia è intrinsecamente maliziosa poichè fa poco leva sulla forza dei propri argomenti, ma punta a pungere tutta quella serie di sentimenti irrazionali delle persone che sfociano essenzialmente in due direzioni: paura, avversione, demonizzazione verso qualcuno o qualcosa; forte desiderio di sicurezza (qualsiasi tipo di sicurezza) pronto da cavalcare. 
Insomma se il populismo può illudere - e di solito accade -,  la demagogià illude.
Quale migliore occasione, dunque, di una campagna elettorale e di prossime elezioni  per mostrarci diverse forme di populismo/demogagia? Pur avendo fatto le debite distinzioni, i due termini sono nel lessico comune oramai inestricabilmente legati e come tali saranno considerati. 
Sarebbe superfluo versare ancora parole sull' istrionica verve populistica di Berlusconi che tutti conosciamo fin troppo. Allo stesso modo, sperimentiamo da tanto anche i soliti (ma proprio soliti) strumenti vetero-demagogici utilizzati sull'altro versante dal centro-sinistra e dai relativi leaders intercambiabili.
Prendiamo invece due facce nuove di una stessa medaglia: Grillo e Monti.
Grillo e Monti sono certamente diversi. Ma a si assomigliano, pur con stile differente, nell'esprimere ugualmente un modello populista e demagogico.

IL POPULISMO DI GRILLO
Il populismo di Beppe Grillo è più evidente perchè più plateale. Il linguaggio, la mimica, l'ironia, l'atteggiamento, non fanno che aumentare l'energia con cui le persone sentono amplificarsi i sentimenti di cui sopra. Alcuni punti forti della campagna di Grillo: "ognuno conta uno", "con la rete si può fare, si decide tutti insieme...", "mandiamoli tutti a fanculo...", "facciamo una commissione per questo e per quello...", "basta guardare il curriculum...", "li andiamo a prendere tutti...". Ce ne sarebbero altri di slogan da analizzare, ma questi sono i più frequentemente utilizzati. E' chiaro che con ognuna di queste frasi Grillo intende scendere nelle viscere delle insoddisfazioni del popolo italiano. Una classe dirigente, specialmente politica, avulsa da qualsiasi legame con la realtà del paese; la rabbia causata dal loro non avere un ben che minimo interesse verso i concreti problemi dei cittadini; l'inesistenza di una vera e piena possibilità di scelta elettorale; la desolazione di una corruzione diffusa a tutti i livelli e la voglia di riscatto (agli estremi, quasi di vendetta); la ferma volontà di avere una chance di edificazione nella propria vita.
Grillo e i suoi si propongono come cura generale per i mali del paese. Ma tutto ciò al prezzo di un altissimo rischio di illudere pesantemente ancora una volta gli italiani. Creare enormi aspettative, promesse che sarà dfficile mantenere non è mai raccomandabile. L'esempio più lampante è quello del sindaco grillino di Parma, il quale è stato portato alla carica di primo cittadino da grandi e suadenti promesse che assecondavano la rabbia dei cittadini  e che ora è costretto a sbattere con problemi concreti di difficile soluzione che stanno già provocando le prime insoddisfatte reazioni.
Ciò che emerge è una visione di Grillo essenzialmente totalitaristica, che viaggia per assoluti. Da un lato gruppuscoli elitari brutti, sporchi e cattivi che attentano in ogni modo alle libertà del popolo e dei cittadini, dall'altro la massa, il numero, somma espressione di ogni virtù. Al centro, al di sopra di tutto e tutti, la rete, assurta al rango di divinità dispensatrice di ogni bene. L' illusorietà vetusta di questa proposta, associata però alla novità fascinosa del mezzo attraverso la quale attuarla la rende di certo pericolosa.
Il tutto ricalca classiche concezioni rousseauiane di sovranità popolare pura, di auto-governo e di auto-legislazione che ogni qual volta si è tentato di mettere in pratica sono degenerate in regimi necessariamente autoritari, spesso dittatoriali. Ciò è già evidente in potenza nello stesso Movimento 5 Stelle: tutti sembrano partecipare, ma chi comanda sono Grillo, Casaleggio e "lo Staff". In un movimento che pretende di dare un ruolo a tutti, il "potere" concreto e spesso esercitato in modo autoritario, è accentrato e detenuto da una ristretta cerchia di persone, come non può non accadere in qualsiasi struttura di potere che deve per forza essere gerearchizzata e sempre ristretta per poter funzionare. L'illusione è appunto nel mezzo, nella rete. La fiducia cieca nelle possibilità della rete riflette quasi quella che si può avere in un partito unico, in una monarchia, in un dittatore. Una dittatura della rete sarà anche nuova, e potrà anche sembrare più partecipata, ma rimane pur sempre una dittatura, con tutte le storture che essa comporta.

IL POPULISMO DI MONTI
Il populismo di Monti è ben nascosto, quasi non si vede. Ma per questo ancor più subdolo e pericoloso.
Ma come? Monti un populista? Ma lui è l'algido accademico tutto freddezza, calcolo, pragmatismo e sobrietà. Ebbene sì, sono proprio queste la facciata e lo stile di una forma di demagogia che non esito a definire quasi terroristica, una demagogia "guerrigliera".
Andiamo con ordine. Un giorno, sotto una pretesa minaccia per lo Stato e per la nazione, un signore di prestigio ma che non può certo annoverare dei particolari o alti meriti verso la nazione viene di punto in bianco nominato senatore a vita e in una manciata di giorni diventa capo di un governo che ha a disposizione la stragrande maggioranza del parlamento per legiferare e la piena facoltà di eseguire per superare la minaccia. Una volta terminata questa esperienza "emergenziale", il senatore a vita decide di sfruttare questo suo intervento salvifico per presentarsi alle elezioni quale uomo della Provvidenza la cui presenza alla guida del Paese è fondamentale per non ricadere nel pericolo. 
Questa sommaria ricostruzione ci da l'idea della morale: io non sono necessario, sono indispensabile.
Già solo questa condizione implica una svalutazione di tutto il resto: le elezioni sono solo una perdita di tempo e denaro, il parlamento è un farraginoso ostacolo, le formazioni politiche che la pensano diversamente da me sono irresponsabili, è meglio fare come dico io senza concertare ogni volta qualcosa con qualcuno (esternazioni, tra l'altro, spesso goffamente fatte in pubblico). 
Il continuo nominare lo spread, l'Europa che ce lo chiede, la spada di Damocle dei mercati, la competitività internazionale, è in realtà una vera e propria tecnica di guerriglia, una tattica di minaccia. Essa provoca paure che generano insicurezze, che generano a loro volta desiderio di sicurezza, forte bisogno di sentirsi al sicuro.
Ecco come procedono Monti e i montiani: generare una preoccupazione emotiva che si fissi bene negli animi degli italiani e che li faccia apparire (come per Grillo) quali unici detentori della soluzione per tutti i mali.
L'unica arma in nostro possesso è non fermarci alle apparenze, andare oltre quello che il nostro sentire può darci per sicuro e smontare le imposture. Smontiamone qualcuna.
Questo link rimanda ad un sito dove è stata analizzata scientificamente l'attività di Monti e del suo governo, confrontandola poi con le performance di tutti gli altri governi europei e con i governi italiani degli ultmi vent'anni:
http://www.rischiocalcolato.it/2012/10/il-bilancio-del-governo-monti-valutazione-finale-il-peggior-governo-della-2-repubblica-valutazione-analitica-delle-performance-dellitalia-rispetto-alla-ue-di-tutti-i-governi.html
Ebbene, da ciò risulta che il governo Monti è stato il peggiore degli ultimi vent'anni.
Altra impostura. Il Monti è fissato con lo spread, arrogandosi il merito per averlo fatto scendere. In realtà, tutti noi possiamo controllare su internet che lo spread durante il governo Monti è salito per ben due volte sopra la soglia dei 500 punti base e che il vero autore della sua discesa è stato il capo della BCE Mario Draghi, il quale ha fatto intevenire la banca centrale tramite l'acquisto massiccio di titoli di stato italiani. Tra l'altro la stessa cosa è successa nel momento peggiore del famoso novembre del 2011. A questo punto si potrebbe porre la domanda: ma visto che la salita o la discesa dello spread sono variabili indipendenti dal governo in carica, Draghi non avrebbe potuto intevenire prima nel momento del bisogno? Mistero.
Ma se tutte le riforme che sono state fatte approvare a man bassa dal parlamento sono indispensabili, come mai ora Monti intende modificarle quasi tutte? Se l'euro è stato un successo soprattutto per la Grecia (cit. Mario Monti) come mai ora la povera Grecia è in una situazione umanitaria devastante? Se le previsioni del governo erano di un leggero ribasso per il pil nel 2012, come mai ci siamo ritrovati un tonfo del - 2,4%? Se Monti e il suo governo avevano tra le priorità la diminuzione del debito pubblico (tra l'altro problema relativo), come mai è aumentato del 7% nel 2012 schizzando a oltre il 125%? 
Le domande sarebbero ancora tante, ma penso che già soltanto queste possano bastare a generare altre domande. 
Un accostamento che sembrava impossibile è diventato così reale. Filo conduttore: il populismo e la demagogia. Tocca a noi cittadini saperci difendere e discernere la realtà dall'illusione.
Basta solo continuare a farci domande. 

                                                                                                        V. C. 






giovedì 24 gennaio 2013

L'essenza della democrazia



Desidero riportare alcuni passi[1] di quel Maestro del pensiero democratico che fu Alcide De Gasperi, i quali racchiudono il senso della politica vissuta come servizio. Che possano essere di buon auspicio per tutti, specialmente per noi giovani.

Il nostro è un contesto sociale in cui si stanno mettendo in dubbio una pluralità di valori, spesso morali ed etici, che sono imprescindibili per lo sviluppo della società civile. La progressiva degenerazione della politica non è altro che la fotografia di un sistema che lentamente si sta spegnendo: che fare allora? Riprendere in mano la storia e i fondamenti che caratterizzano una democrazia degna di tale nome. Sostiene De Gasperi che “la democrazia non è semplicemente uno Statuto”, il perfetto contrario di quello che sta avvenendo con la proliferazione di molteplici partiti politici, o presunti tali, ad personam che tra il comico ed il teatrale mettono in ombra il vero significato della politica: servizio ai cittadini. Continua “La Repubblica non è semplicemente una bandiera: è soprattutto una convinzione e un costume; costume di popolo. È necessario che ci persuadiamo che il regime democratico è veramente un regime molto duro, un regime che esige un addestramento e una vigilanza continua. Bisogna creare con lo sforzo quotidiano la democrazia nell’abitudine, nel Parlamento, nel Governo, nei partiti e nelle associazioni. Ogni giorno è necessario riconquistare la democrazia, dentro di noi contro ogni senso di violenza, fuori di noi con la esperienza della libertà”.

Espressione concreta della democrazia, intesa come immagine della volontà popolare, sono i partiti ma “[…] la funzione di un partito va armonizzata col diritto e con la funzione delle persone del partito, cioè l’organizzazione democratica non deve livellare la personalità; ma la personalità deve coordinare il proprio impero creativo e propulsivo in uno sforzo che corrisponda alle possibilità della massa che segue; non deve distanziarsi perché andrebbe a finire all’isolamento o alla dittatura; non deve lasciarsi deprimere perché ciò significherebbe il passo con i meno agili”. Dunque[…] un partito vince non per il numero dei suoi iscritti o non soltanto per questo; vince per la forza di interpretazione della volontà del Paese”. Mai parole furono più vere ed attuali. La democrazia è un valore che va difeso anche se comporta un alto grado di maturazione collettiva per capirne l’intima essenza, spesso assente. "Si parla molto di chi va a sinistra o a destra, ma il decisivo è andare avanti e andare avanti vuol dire che bisogna andare verso la giustizia sociale".

                                                                                                                      E.D.M






[1] Estratti dal discorso per il II Congresso nazionale della Dc, Napoli, 17 novembre 1947.

mercoledì 23 gennaio 2013

Politica e Diritto

Politica e Diritto. Due categorie tenute distinte dalla dottrina, secondo un grande maestro del Diritto (Ferrajoli) che oggi bisogna cominciare a riunire. D’accordo, riuniamoli, ma prima è necessaria una ricognizione, generalissima, e me ne scuso, sullo stato della politica in Italia. Ovviamente si accennano argomenti che è impossibile ed inefficace sviscerare in questa sede; ma che possono essere approfonditi in caso di dibattito.

La prima questione che appare evidente all’osservatore da lontano, senza bisogno di binocolo, è il detrimento degli argomenti politici. Nella campagna elettorale più veloce delle ultime tre competizioni, di idee se ne è parlato pochino. Sarebbe stato gratificante sentire quale idea di Uomo accettano, quale respingono, i vari candidati. Quale antropologia, sociologia, quale orizzonte si apre votando Bersani ovvero Monti, Berlusconi, Storace, il Movimento 5 stelle?

Parliamo di candidati e non di partiti, per l’ulteriore questione, identificabile a una distanza più ridotta dal cuore del problema politico: sistema istituzionale partitico, cioè forma di governo parlamentare, ma con una legge elettorale che non si adatta, che pretende l’indicazione del “capo” di coalizione, o di lista, e che rende “quasi” vincolato il Presidente della Repubblica ad affidare l’incarico di formare il Governo a quel “capetto”, tronfio di una legittimazione popolare estorta agli elettori.

Addentrandosi nella babelica architettura politica italiana, gli occhi sono attratti come falene al neon, da una vicenda più complessa, ma più importante di tutte. La classica tripartizione dei poteri, le concezioni che muovono da Locke, Bodin, Hobbes, insomma lo Stato moderno, sembra intenzionato ad andare in pensione (dopo aver scontato gli anni in più che la riforma Fornero gli ha concesso). Come? Sotto diversi profili, ma il più apparente è proprio nel rapporto tra politica e Diritto. 

Quando magistrati (requirenti, si badi, non giudicanti) si preoccupano di politica, candidandosi, invece di servire la legge, con la loro attività privilegiata in cui sicuramente può manifestarsi una concezione politica di società, di uomo, di morale, è chiaro il sintomo di un’influenza negativa: cosa per-seguono, quale interesse (al singolare) sottendono alla propria azione? Sembra che la spinta ricevuta da questi soggetti, considerabili nel complesso come categoria, come “automata” (macchine che si muovono da sole una volta avviate dall’esterno), sia quella morale. Il Diritto è fuori dalla loro ottica, e si può rintracciare una concezione morale della politica: moralismo. Si può immediatamente pensare al settecentesco Thomasius, nella sua classica tripartizione tra ciò che è “giusto” (mondo del diritto), “onesto” (etica) e “decoroso” (decoro include i comportamenti raccomandabili nei reciproci rapporti, la cui inosservanza però non è colpita da sanzioni). Se Ferrajoli ha ragione, se bisogna cioè tenere uniti politica e Diritto, il politico/legislatore deve originare il “giusto”, non cercare di imporre ”l’onesto”. E in realtà dovrebbe farlo anche il magistrato.

Altro aspetto rilevante è quello sollevato da un altro maestro del Diritto e della politica, Rodotà, quando dice che sui diritti fondamentali la politica non può decidere, perché non si decide a maggioranza su questioni che riguardano la persona; immediatamente si apre la strada alla iuris-ditione, allo ius-dicere, cioè al decidere dicendo diritto, del magistrato giudicante. Siamo d’accordo, la dittatura della maggioranza è da evitare, e il giudice applica incidenter tantum la legge. Ed anche qui si manifesta un vulnus gius-teoretico rilevante: che fine ha fatto la sovranità? Si parla di dittatura della maggioranza, ma non si dovrebbe accogliere l’idea costituzionale (in senso di costituzionalista, non di testo costituzionale) di sovranità esercitata dal Popolo? In realtà Rodotà ha centrato un problema enorme: la sovranità si è in parte trasferita a Bruxelles, in parte è ritornata ai poteri che l’hanno esercitata nel corso dell’epoca del Dritto comune, sotto altre forme e con diverse implicazioni, ma certamente non è più nelle mani di quel Leviatano ormai orfano del proprio potere.
Speriamo in una nuova stagione politica, che allora, dovrebbe preludere, ovvero essere preceduta da, una nuova stagione di cultura giuridica.
                                                                                                                        P. B.