venerdì 21 novembre 2014

Il Paese del formalismo militante

“L’Italia è il Paese che amo”. Sembra assurdo, ma qualcuno ha costruito una carriera politica partendo da queste facili parole. Non so se è capitato a tutti di amare, a me sì: posso garantire che quando si ama, la vita quotidiana è sospinta da una forza incredibile. Cosa c’entra tutto questo con il titolo?

Il nesso è facile. La vita quotidiana di un giovane laureato in Giurisprudenza è costruita interamente sull’amore, cioè su una forza invisibile che lo incoraggia ad andare avanti. In Italia infatti non ha nessun senso pratico, finalizzato all’inserimento professionale, frequentare alcun corso o percorso formativo post lauream. L’unico senso che ha è il formalissimo puro e semplice rilascio di un titolo. Non si impara davvero niente di utile da spendere nell’immaginario e ormai mitico “mondo del lavoro”.
Ammesso che esista, il mondo del lavoro è ad anni luce di distanza dal “pianeta gavetta”, anch’esso, come una più nota Isola, situato immediatamente dopo la “seconda a destra, poi dritto fino al mattino”: non c’è!

È il momento di cambiare. L’Italia tiene al palo della formazione migliaia di talenti, che nascosti sotto il materasso per un decennio non renderanno di più, anzi, renderanno sempre meno. Ecco le riforme da fare: eliminare odiosi percorsi a ostacoli (scuole di specializzazione, tirocini, praticantati) e rendere accessibile il lavoro subito; includere la pratica obbligatoria all’Università; di conseguenza eliminare gli esami di Stato. Altro che “Atto Lavori” (Jobs Act).
Tutto questo si collega con una visione politica della società, per certi versi intrinseca alla storia dell’Occidente. Alla base di tutto c’è una concezione diversa dello “stato di natura”, della situazione in cui versano gli Uomini prima di costruire uno Stato giuridico. Se è presupposto uno stato di natura in cui gli uomini sono “lupi” (S. Agostino, Hobbes) gli uni degli altri, è necessario uno Stato giuridico che autoritativamente dica cosa fare, selezioni, agisca (tramite gli ordini professionali) per legalizzare la lotta omicida, trasformandola in ordinata e legittima prevaricazione del più forte (in termini di titoli). L’altra concezione di stato di natura è diametralmente opposta (S. Tommaso, Locke): qui si presuppone che agli esseri umani piace interagire per il bene di ciascuno, ed entrando in contatto, “convengano” (covenant) uno Stato giuridico per prosperare tutti.

Si potrebbe dunque affermare che una certa visione possa essere chiamata di destra, e l’altra, di sinistra. Nota: entrambe queste tensioni possono coesistere in un raccoglitore politico, ovunque esso sia collocato nella destra e nella sinistra parlamentarie. Le nostre categorie sono tensioni filosofiche intrinseche all’uomo politico e al legislatore. Secondo me, la prima ha caratterizzato la passata evoluzione (dagli anni ’20 del secolo scorso ad oggi) delle “LIBERE” (!?) professioni in Italia. È forse il momento che la seconda impostazione prevalga; e che gli ordini professionali restino enti di garanzia e tutela: nulla più.

                                                                                                              P. B. 

lunedì 10 novembre 2014

Bioetica laica e bioetica cattolica

Vorrei porre l’attenzione su di un tema particolarmente delicato ma quasi abbandonato da una società a solidarietà immatura, per non dire fortemente carente, soprattutto nei confronti dei soggetti deboli quali il nascituro concepito. Davanti il progredire della tecnica, l’osservatore, specialmente quello cattolico, sembra assopito dai fumi di finta libertà intrinseca al dominio del proprio corpo. L’uomo si considera centro di se stesso, non figlio di un unico Padre, come noi cristiani crediamo. Le parole che scriverò non sono rivestite da presunzione di completezza, l’argomento è fin troppo delicato e complesso; vogliono soltanto presentare un monito e un tentativo di risveglio del nostro io cosciente.

Il legislatore[1] e la giurisprudenza di riferimento sembrano avvalorare l’idea di un sistema costituzionalmente orientato nella direzione di una preminente necessità di protezione della salute della donna, senza considerare pienamente la figura del nascituro concepito. La protezione della donna diventa bene supremo dinanzi al quale, almeno de iure condito, ogni altro bene, anche il diritto alla vita o, ove lo si ammetta, anche alla non vita se non sana, sembra essere costretto a cedere il passo, giusto o sbagliato che possa apparire. Proprio in senso contrario all’antico brocardo primum vivere, deinde filosofari. Si manifesta quindi la tensione tra due opposti paradigmi: quello della bioetica laica, consistente nel «principio della qualità della vita» e quello della bioetica cattolica, consistente, invece, nel «principio della sacralità della vita». Entrambi, però, da potersi considerare come giusti limiti al progresso tecnico-scientifico[2]. In una simile prospettiva, la bioetica sarebbe da considerare come strumento di individuazione di giusti limiti al «progresso tecnico-scientifico» ed in conseguenza della crisi di morali assolute, manifestatasi in maniera devastante con il movimento nazista e con i tragici eventi ad esso conseguenti che hanno segnato la fine dell’età dell’innocenza della scienza, venendo messa in discussione la sua auctoritas[3].

La problematica dei diritti umani non è tanto più quella di giustificarli, quanto, quella di proteggerli, una questione non filosofica, ma politica[4]. Appare evidente come l’art. 1 c.c., benché da intendersi norma fondamentale in materia di tutela della persona e del concepito, non sembra, tuttavia, essere sufficiente al fine di coordinare la tutela della soggettività giuridica con quella della persona. Sembra esservi disomogeneità tra il concetto di soggetto di diritto e quello di persona, cui si rivolge la nostra Costituzione e la Convenzione dei diritti dell’uomo. Persona sembra essere considerata l’essere naturale, meglio definita dalla filosofia come centro di relazioni, che è necessariamente anche soggetto di diritti per l’ordinamento. Il concetto di soggetto di diritto e quello di persona umana sono ben distinti, non omogenei e aventi diversi riferimenti normativi, risultando più ampia la protezione della persona.

Quello di persona è un concetto che preesiste all’ordine giuridico che, pertanto, non la determina e non è neppure in grado di porre limiti alla protezione di essa. Si spiega meglio, in tal senso, l’incipit dell’art. 1, comma 1, della legge sulla interruzione di gravidanza[5]: «lo Stato tutela la vita umana dal suo inizio». La legge sembra prescindere da una personificazione del vivente. È assicurata tutela al nascituro a prescindere dal suo essere persona, almeno come tradizionalmente intesa. Di conseguenza vi è vita nell’embrione, vi è vita nel feto. L’unico limite tollerabile alla protezione della vita del nascituro è la tutela della salute della donna, essere naturale non in divenire, se si preferisce, persona fattasi.

Questa situazione giuridica soggettiva più favorevole al nascituro, in termini di estensione della tutela della persona, rappresenta, forse, la vera novità della l. 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita. L’art. 1 della citata legge «assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito». Nonostante la dizione usata dal legislatore sia oscura, sembra, tuttavia, chiaro il riferimento al diritto alla vita e alla dignità del nascituro, potendosi giustamente discutere addirittura sulla possibile estensione del diritto alla vita sino a ricomprendere anche il diritto a nascere sani. Nonostante alcuni autori, di dubbia derivazione politica, abbiano affermato che tutelando il nascituro «si scorge la volontà di imporre un modello di gestione del corpo della donna, sottratto alla libera gestione della persona interessata», ci si chiede se sia in atto un parziale mutamento della concezione stessa dei diritti fondamentali - con specifico riferimento ai diritti umani -  tradizionalmente intesi come «diritti universali ed inalienabili a cui ogni individuo può appellarsi per il fatto che, nascendo, arriva nel mondo come membro dell’umanità».

Sembra dunque trovarsi una crisi bioetica del diritto, nel senso che sia la scienza sia l’affermazione dei diritti umani abdichino alla loro funzione di giusti limiti al potere della tecnica. Una risposta, seppure debole e parziale, è stata data dalla l. n. 40 del 2004 invitando ad essere cauti e prudenti nel trattare l’embrione, non dovendo essere considerato come nulla. Questa potrebbe essere la linea interpretativa da percorrere in materia, cercando di escludere pericolosi eccessi o, ancora peggio, strumentalizzazioni sterili e superficiali. L’indagine deve essere ricondotta anche e necessariamente sui doveri, specialmente in ambito familiare, di preservare l’integrità, di garantire la nascita, la crescita, di proteggere la salute del nascituro. «Bisogni ed interessi», questi, scrive Giorgio Oppo[6], «attuali di quella entità vivente che è il feto a prescindere dalla sua qualificazione come persona». L’autore evidenzia come oggi ci si trovi di fronte al declino del soggetto ed all’ascesa della persona, nel senso che «il progressivo passaggio dei diritti umani dall’ordine sociale all’ordine statuale, può essere descritto come ascesa della persona rispetto al soggetto; ma è anche ascesa dello stesso soggetto, da una condizione di soggezione a una condizione di sempre più centralità nell’ordine giuridico. Un declino è quindi configurabile solo come riduzione di una posizione di prevalenza della nozione e della realtà giuridica del soggetto rispetto alla nozione e alla realtà della persona, non come perdita di sostanziale giuridicità».

Tutto ciò già accadeva nell’antico diritto romano, del quale sorprende la modernità: chi è capace, anche prima della nascita, è da considerare a tutti gli effetti persona. Punto di forza del diritto romano classico e giustinianeo era la non elaborazione di concetti astratti, se non quando fossero estremamente necessari. Già dall’utilizzo della terminologia si evidenzia la sensibilità dei giureconsulti classici in tema di nascituri concepiti. Il termine più usato è qui in utero est, che esprime un concetto estremamente concreto. Accanto a questo viene usato anche partus (può indicare, oltre al partorire, anche il nascituro ed il nato) per sottolineare la continuità tra il nascituro e il nato attraverso l’atto del partorire. Il termine fetus non è usato dai giuristi in riferimento all’uomo, ma soltanto per gli animali[7]. La Costituzione italiana, all’art. 32, in riferimento al fondamentale diritto alla salute, usa il concetto giuridico, perfettamente adeguato alla rerum natura, di individuo. Con ciò viene implicitamente affermata, al di sopra di ogni discussione positivistica, la titolarità di diritti di ogni individuo umano esistente, anche concepito. Nonostante in Italia sia prevalso l’individualismo, esso sembra venir affievolito dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale italiana a partire dal 1997. Il diritto alla vita dell’individuo deve essere integrato nel diritto alla vita del popolo: un diritto alla vita inteso in modo totale. La via inizia concettualmente nel rapporto tra individuo e collettività indicata dal giurista Alfeno Varo, alla fine dell’età repubblicana; la via si sviluppa grazie al favore per il nascituro precisato da Ulpiano, Paolo, Marciano; la via conduce all’aumento della cittadinanza da Caracalla a Giustiniano.Non vanno dimenticati, oggi, i problemi dello status (ad es. la cittadinanza dei nuovi nati, l’adozione dei concepiti), così come quello degli alimenti.

Quanto alla convergenza dei sistemi giuridici appare utile ricordare la discussione tra Rabbi Jehudà il patriarca e l’imperatore Antonino (forse Marco Aurelio) che si trova nel Talmud[8]: «Antonino ha chiesto a Rabbi: ”da quando viene introdotta l’anima nell’uomo, dall’ora del concepimento o dall’ora della formazione [dell’embrione]?”. Gli rispose: “dall’ora della formazione”. Gli disse [Antonino a Rabbi]: “è mai possibile che un pezzo di carne stia tre giorni senza sale, senza andare a male? Certo deve essere dall’ora del concepimento [lett. la visitazione]”. Ha detto Rabbi:”questo mi ha insegnato Antonino e vi è un passo biblico che lo conferma, come è detto: Mi hai donato vita e mi hai usato misericordia e la tua visitazione conservò il mio spirito”».
Questo rispetto per l’individuo, in cui convergono l’Ebreo e il Romano, si scontra con l’odierno individualismo del più forte che minaccia la crescita di ogni popolo.


                                                                                                      E. D. M.






[1] L. 194/1978 sull’aborto e L. 40/2004 sulla riproduzione assistita.
[2] Limiti sui quali si è iniziato a discutere seriamente durante il Processo di Norimberga con le sue tragiche e drammatiche rilevazioni.
[3] F. Rinaldi, Relazione del 5.4.2013 presso Università degli Studi di Cassino nell’ambito di un seminario svolto per le attività del Dottorato in Diritti fondamentali.
[4] N. Bobbio, Sul fondamento dei diritti dell’uomo, in L’età dei diritti, Torino, 1990, p. 52 ss.
[5] L. n. 194/1978
[6] G. Oppo, L’inizio della vita umana, in Riv. dir.civ., 1982, p. 504
[7] P. Catalano, Diritto, soggetti, oggetti, in Iuris Vincula, Napoli, 200, p. 98 ss.
[8] T.B. Sanhedrin 91 a. Stessa questione posto dai padri della Chiesa tra Tertulliano e Sant’Agostino.

mercoledì 5 novembre 2014

Che fine fa l’associazionismo?

Qualche settimana fa in piazza San Pietro la Chiesa intera si è ritrovata per la beatificazione di Paolo VI. Oltre a celebrare la santità di Giovanni Battista Montini, asceso agli onori degli altari, la beatificazione ha favorito nel tempo che l’ha preceduta una serie di iniziative volte a porre una riflessione non solo su uno straordinario personaggio della Chiesa del XX secolo ma anche sull’ambiente che lo ha circondato. Una parte di questo ambiente è stata sicuramente la Fuci, di cui è stato assistente ecclesiastico dal 1925 al 1933. La Fuci è la più antica organizzazione studentesca italiana ed un’articolazione del variegato mondo dell’associazionismo cattolico italiano.

Proprio l’associazionismo e il movimento cattolico, tanto celebrati nel periodo di Montini, oggi sembrano attraversare un momento che potrebbe essere definito di crisi o per lo meno di stallo. Se all’inizio del XX secolo Agostino Gemelli paragonava il movimento cattolico italiano ad un grande corpo che, nonostante la ricchezze di esperienze associative, si ritrovava ad avere una testa piccola, oggi potrebbe dire senza suscitare particolare scandalo che il suddetto oltre alla testa si ritrova ad avere anche un corpo piccolo. Ma se nell’ambito del movimento cattolico molte realtà appaiono comunque vivaci e in grado di poter offrire comunque una risposta ad una domanda di fede, il mondo dell’associazionismo arranca. La sua azione in seno alla società è poca incisiva e più indirizzata a conservare la sua complessa configurazione fatta di statuti, tessere, congressi. Sembra  impantanato in una situazione di paralisi e di inconsistenza e di inconcludenza rispetto a una società che viaggia a vele spiegate verso l’ignota e per certi versi inquietante rotta della post-contemporaneità. Arduo e complesso sarebbe rintracciare le cause di questa inconsistenza dell’associazionismo cattolico italiano.
      
Certamente il panorama sociale italiano è profondamente cambiato, come del resto quello internazionale. Il declino della forma associazione va di pari passo con quello della forma istituzionale tout-court o delle altre forme di rappresentanza come i partiti o i sindacati. E questo si palesa soprattutto nell’ambito ecclesiale. Il proliferare dal Vaticano II di movimenti e di cammini di fede alternativi ha sicuramente indebolito la struttura associativa che nel corso del XX secolo ha rappresentato uno dei pilatri  su cui si dispiegava la vita di fede dei cattolici italiani.

Ora, la varietà e la presenza di cammini e di movimenti è sicuramente  un aspetto positivo per la Chiesa e che risponde ad una domanda spirituale significativa, ma il progressivo indebolimento dell’associazionismo rende manifeste delle possibili derive che non possono essere trascurate. Forse la più preoccupante è rappresentata dal distacco che si sta delineando tra società civile ed esperienza di fede, tra l’essere cittadino e l’essere fedele. La manifestazione palese è stata a livello politico lo sgretolamento  della tradizione popolare e cristiano-democratica, praticamente svuotata da chi se ne diceva (o dice) legittimo prosecutore. Tradizione che vedeva nell’associazionismo il proprio serbatoio di energie, di uomini, il proprio laboratorio di idee. L’affermazione di uno storico come Chabod che ha definito la nascita del PPI come l’evento più importante della storia d’Italia del XX secolo, evidenzia il peso decisivo di un certa tradizione. Non si tratta in questo caso di rimembrare una mitica età dell’oro, il che sarebbe irreale, ma un evidenziare come i cattolici si sono inseriti nella società italiana con la prospettiva di cambiarla nell’ambito non solo politico ma anche dell’università, della cultura, dell’economia, del lavoro. Il rischio di oggi è quello di articolare la vita di fede nell’ottica di uno spiritualismo disincarnato, tendente a creare un vero e proprio fossato con il mondo che ci circonda . Il cristiano, infatti, ha gli occhi fissi al cielo ma anche i piedi saldi in terra. Il cristiano è chiamato sì a non essere del mondo ma a vivere nel mondo.  

Per colmare tale fossato, si è tentato di serrare le fila del cattolicesimo militante intorno a dei principi verso i quali chi si ritiene cattolico non può mostrarsi insensibile. E’ la linea dei valori non negoziabili perseguita dalla metà degli anni novanta dalle autorità ecclesiastiche, con lo scopo di mobilitare l’opinione pubblica cattolica, priva di un punto di riferimento come la Democrazia Cristiana, su determinati temi. Linea che si è limitata all’ottenimento di risultati immediati, quali il rinvio o la cancellazione di certe leggi, o di prove di forza, posizionandosi su un fronte di strenua opposizione e niente più. Questo aspetto “negativo”, andato oltre le intenzioni di chi all’inizio aveva sposato questa linea, ha evidenziato la mancanza di un ceto dirigente laicale, formato in passato nell’associazionismo. Un ceto dirigente che sperimentava un'autonomia del fedele, impegnato nella cosa pubblica e vissuta non come distacco dal mondo o dall’autorità ecclesiale «ma per non impegnare in una vicenda estremamente difficile e rischiosa l’autorità spirituale della Chiesa (...) L’autonomia dei cattolici impegnati nella vita pubblica, chiamati a vivere il libero confronto della vita democratica in un contatto senza discriminazioni. L’autonomia è la nostra assunzione di responsabilità, è il nostro correre da soli il nostro rischio, è il nostro modo personale di rendere servizio e di dare, se possibile, una testimonianza ai valori cristiani nella vita sociale»[1]. Inoltre, costruire un impegno solo su alcuni temi, anche se ritenuti non negoziabili, rischia di scadere nelle contraddizioni tipiche di alcuni settori della destra religiosa americana, impegnata nella lotta contro l’aborto e l’eutanasia, ma altrettanto accanita nel sostenere la pena di morte e la ricchezza di chi è già ricco.

Il movimento cattolico italiano è stato molto più di questo. Ha permesso la partecipazione politica dei fedeli in uno Stato all’inizio ostile, ha pensato l’alternativa alla lotta di classe nella tutela dei lavoratori, ha contribuito all’uscita da una ristrettezza culturale positivista, ha dato una voce di libera coscienza in un regime e molto più ancora. E’ necessaria a questo punto una riflessione che miri ad un ripensamento che interpella le autorità ecclesiali e laici impegnati, perché questo patrimonio e questa tradizione non diventino cimeli da conservare e su cui crogiolarsi ma ricchezza per costruire e non disperdere. Altrimenti si può già comporre il de profundis. Bisogna avere, però, il coraggio di intonarlo.

                                                                                                               V. R.    





[1] A. Moro, Realazione introduttiva all’VIII Congresso nazionale della Democrazia Cristiana, Napoli, 27 gennaio 1962.