Il mondo si muove, seppur senza avere una meta, ma si muove.
Anche l’Italia si muove, in un continuo, inesorabile declino di disperazione,
rabbia e impotenza. C’è però un punto fermo, fermissimo, che non si sposta
nemmeno di un millimetro. Lo stallo politico. E’ proprio questo il massimo
della contraddizione della situazione odierna: lo stallo, mentre tutto
precipita.
Nonostante ciò, da tutte le parti ogni giorno si sentono
proferire parole d’urgenza e necessità: urge fare qualcosa per il paese, urge aiutare
immediatamente chi è in difficoltà, è necessario dare ossigeno a chi non ne ha,
è necessario stabilire priorità e relative soluzioni. Tutti per il paese
dunque. Tutti per il popolo italiano, dunque. In realtà nessuno per il paese,
tanto meno per il popolo. La menzogna dell’attesa per la ricerca della migliore
strada da intraprendere nasconde malamente l’olezzo del conflitto degli
interessi di parte, dei vantaggi particolari, delle vanità personali. L’orchestra
suona, mentre il Titanic affonda.
Certo, è impossibile non constatare l’oggettiva complessità del
puzzle politico dopo il bizzarro risultato elettorale. Ma sicuramente più grave
è la cecità delle componenti politiche verso lo stato comatoso in cui riversa
la nazione. Cecità provocata da anni e anni di progressivo distacco della
classe dirigente dalla vita del paese e del suo popolo. Se tale distacco può
esser derivato, almeno all’inizio del processo, da cause non del tutto volute,
si è poi perseverati nel volgere lo sguardo dall’altra parte. Intenzionalmente.
Il costante richiamo alla distanza tra governanti e “popolo” il
più delle volte è inteso in chiave populistico-demagogica, alla “grillina”
diremmo oggi, cioè pochi brutti e cattivi da una parte e tanti buoni e virtuosi
dall’altra. In realtà la questione è di metodo, precisamente di metodo della
partecipazione alla vita civile. E’ qui che i concetti di “popolare” e
“popolarismo” possono rappresentare un’alternativa per uscire dal pantano.
Nella prospettiva sturziana il popolo non è né quella “entità” di cui il leader
è convinto di incarnare in toto l’essenza (da qui il leaderismo sterile che
viviamo oggi nel nostro paese), né è una nozione di popolo organicistica. Prima
di tutto c’è la persona, che giudica, agisce e sceglie, mentre i concetti generali
di "stato", "società", "classe" non configurano realtà
diverse e “altre” rispetto alle parti che li compongono. Le parti, cioè le
persone, sono prioritarie ed hanno una valenza superiore rispetto alle
aggregazioni complessive, ma allo stesso tempo quest’ultime conincidono ed
esistono in quanto somma delle parti. Il fattore principale che rende questa
somma uno stato, una società, un popolo è la partecipazione. Ciò vuol dire che le
scelte (che vanno prese e perseguite, onde evitare di rimanere sempre in un
limbo) devono essere condivise attraverso un vero coinvolgimento del popolo individuando
i reali problemi e ricercando le soluzioni.
Il coinvolgimento del popolo,
come si è già detto, non corrisponde però alla volontà generale della masse, utopica
quanto disfunzionale, in realtà vuol dire formare un gruppo dirigente e
specificamente politico che, provenendo da quella civica aggregazione di
persone che si è definito “popolo”, possa poi ambire a essere il governo “del
popolo, per il popolo”, parafrasando una famosa frase di Abramo Lincoln.
Questa funzione di formazione politica, ma anche civica e culturale, nonché di
intermediazione tra la futura classe dirigente e il popolo era (e dovrebbe
essere, costituzionalmente) adempiuta da quelle particolari associazioni che
sono i partiti. Il loro ruolo era (e ripeto, dovrebbe essere) fondamentale.
Facendo riferimento a delle ideologie - o, comunque a delle idee-, questi in
passato erano i luoghi prediletti in cui
si pensavano delle scelte, si prendevano delle decisioni confrontandosi, processi che partivano dal singolo iscritto per
coinvolgere poi la sua stessa famiglia, quella piccola comunità che era la
sezione di partito fino ad arrivare ai vari livelli istituzionali: l’assessore, il sindaco, il presidente della
Provincia, della Regione, il parlamentare, il componente del governo. Era
questa la via percorsa per coinvolgere il popolo nelle responsabilità, in cui
quasi sempre erano i più capaci, o comunque riconosciuti tali, ad andare avanti
nel perseguimento delle proprie e altrui istanze politiche. Se constatiamo come
oggi questa via sia stata chiusa per prendere la “scorciatoia” del rapporto
diretto edulcorato tra il leader e le masse, modello che ha scambiato la riflessione
con il sensazionalismo degli spot elettorali, possiamo comprendere che se da un
lato la partitocrazia chiusa e sterile è da evitare, dall’altro la completa
evaporazione dei partiti è stato sicuramente uno dei fattori che ha contribuito
alla decadenza socio-politico-economica odierna dell’Italia.
Viviamo insomma in una democrazia
senza “demos” ovvero senza popolo,
nel più concreto significato greco della parola, cioè “ tutti coloro che
partecipano alla vita della polis” (o
dello stato, attualizzando).
Proprio in questo senso, don
Sturzo, all’epoca della formazione del Partito Popolare Italiano tra il 1918 e
il 1919, aveva scelto di denominare il partito come “popolare” e non “del
popolo”: sostenere che il proprio partito rappresenti "il popolo"
significa escludere tutti coloro che non si riconoscono in quel partito dal
popolo, pretendendo di stabilire con parzialità la discriminante tra il “vero popolo”
il “non-popolo”. In realtà, il ruolo del partito nel contesto democratico è di strumento
di partecipazione proprio per essere “popolare”, cioè non elitario né aristocratico.
Solo così il popolo sarà il protagonista legittimo della vita democratica, il soggetto
storico valido a riformare la società in cui le personalità passano, per quanto
importanti e significative, mentre il metodo resta.
Purtroppo oggi in Italia non si
odono le voci del popolo, ma solo il silenzio della distanza.
V. C.