martedì 7 maggio 2013

“Società civile” e “Chiesa-popolo di Dio”



"Società civile” e “Chiesa-popolo di Dio” sono due concetti alla base di una visione partecipativa ed in senso lato democratica delle due dimensioni dell’Uomo occidentale. Ma davvero esistono nell’esperienza categorie così nettamente individuabili all’interno dei rispettivi ambiti?

Immaginiamo uno Stato-istituzione senza “società civile”; oppure una Chiesa-istituzione senza il  “popolo di Dio”: gusci vuoti. Anzi, per la verità, gusci artificiali vuoti.

In diversi ambienti, tanto civili quanto ecclesiastici, si verifica il solito abuso linguistico; si avverte quasi una contrapposizione tra queste astrazioni, queste categorie generiche, e una realtà istituzionale separabile. Si sente parlare di “noi della società civile” contro “loro della politica”, oppure “noi Chiesa comunità” contro una “Chiesa/clero/istituzione”. La parte sugli aspetti ecclesiastici è consultabile su http://fuciromasapienza.myblog.it/
Per quanto riguarda lo Stato, i politologi si esercitano da secoli sulla distinzione tra Stato-comunità e Stato-istituzione. Il diritto costituzionale, più rigoroso, supera queste questioni esteriori considerando lo Stato come ordinamento giuridico.

Dal punto di vista concreto e reale, fuori dalle elucubrazioni intellettuali, è del tutto banale la distinzione tra “società civile” e “politica” o Stato. Tanto perché in democrazia (rappresentativa o diretta) la società civile è la politica (partecipando a partiti e votando, oppure solo votando nel caso della diretta), quanto perché una politica che prescinde dalla società civile è destinata a non sopravvivere ed essere sostituita. Ma per la prima ragione, ad essere sostituita, in ultima analisi, è una parte della società civile, quella che si è impegnata nelle res publicae.

Quindi a fallire, da un punto di vista storico, è una generazione, un popolo di una determinata epoca: tutti gli Italiani, tutta la società, sono il prodotto della sua evoluzione (ovvero involuzione) culturale e sociale. Se i politici di fine ‘900 sono considerati “ladri”, è vero che in buona parte delle case, nel XX secolo e nei primi del XXI, si evade il canone RAI; oppure in buona parte degli esercizi commerciali non si adempiono oneri fiscali; etcc … . Insomma, buona parte dei politici è la rappresentazione di buona parte della società, perché i politici sono la società.
La soluzione? Dare una chance alla generazione successiva.



                                                                                            P. B.

giovedì 2 maggio 2013

Tutti per il popolo, nessuno per il popolo: cos’è il popolo





Il mondo si muove, seppur senza avere una meta, ma si muove. Anche l’Italia si muove, in un continuo, inesorabile declino di disperazione, rabbia e impotenza. C’è però un punto fermo, fermissimo, che non si sposta nemmeno di un millimetro. Lo stallo politico. E’ proprio questo il massimo della contraddizione della situazione odierna: lo stallo, mentre tutto precipita.

Nonostante ciò, da tutte le parti ogni giorno si sentono proferire parole d’urgenza e necessità: urge fare qualcosa per il paese, urge aiutare immediatamente chi è in difficoltà, è necessario dare ossigeno a chi non ne ha, è necessario stabilire priorità e relative soluzioni. Tutti per il paese dunque. Tutti per il popolo italiano, dunque. In realtà nessuno per il paese, tanto meno per il popolo. La menzogna dell’attesa per la ricerca della migliore strada da intraprendere nasconde malamente l’olezzo del conflitto degli interessi di parte, dei vantaggi particolari, delle vanità personali. L’orchestra suona, mentre il Titanic affonda.

Certo, è impossibile non constatare l’oggettiva complessità del puzzle politico dopo il bizzarro risultato elettorale. Ma sicuramente più grave è la cecità delle componenti politiche verso lo stato comatoso in cui riversa la nazione. Cecità provocata da anni e anni di progressivo distacco della classe dirigente dalla vita del paese e del suo popolo. Se tale distacco può esser derivato, almeno all’inizio del processo, da cause non del tutto volute, si è poi perseverati nel volgere lo sguardo dall’altra parte. Intenzionalmente.

Il costante richiamo alla distanza tra governanti e “popolo” il più delle volte è inteso in chiave populistico-demagogica, alla “grillina” diremmo oggi, cioè pochi brutti e cattivi da una parte e tanti buoni e virtuosi dall’altra. In realtà la questione è di metodo, precisamente di metodo della partecipazione alla vita civile. E’ qui che i concetti di “popolare” e “popolarismo” possono rappresentare un’alternativa per uscire dal pantano. Nella prospettiva sturziana il popolo non è né quella “entità” di cui il leader è convinto di incarnare in toto l’essenza (da qui il leaderismo sterile che viviamo oggi nel nostro paese), né è una nozione di popolo organicistica. Prima di tutto c’è la persona, che giudica, agisce e sceglie, mentre i concetti generali di "stato", "società", "classe" non configurano realtà diverse e “altre” rispetto alle parti che li compongono. Le parti, cioè le persone, sono prioritarie ed hanno una valenza superiore rispetto alle aggregazioni complessive, ma allo stesso tempo quest’ultime conincidono ed esistono in quanto somma delle parti. Il fattore principale che rende questa somma uno stato, una società, un popolo è la partecipazione. Ciò vuol dire che le scelte (che vanno prese e perseguite, onde evitare di rimanere sempre in un limbo) devono essere condivise attraverso un vero coinvolgimento del popolo individuando i reali problemi e ricercando le soluzioni.

Il coinvolgimento del popolo, come si è già detto, non corrisponde però alla volontà generale della masse, utopica quanto disfunzionale, in realtà vuol dire formare un gruppo dirigente e specificamente politico che, provenendo da quella civica aggregazione di persone che si è definito “popolo”, possa poi ambire a essere il governo “del popolo, per il popolo”, parafrasando una famosa frase di Abramo Lincoln.
Questa funzione di formazione politica, ma anche civica e culturale, nonché di intermediazione tra la futura classe dirigente e il popolo era (e dovrebbe essere, costituzionalmente) adempiuta da quelle particolari associazioni che sono i partiti. Il loro ruolo era (e ripeto, dovrebbe essere) fondamentale. Facendo riferimento a delle ideologie - o, comunque a delle idee-, questi in passato erano i luoghi prediletti  in cui si pensavano delle scelte, si prendevano delle decisioni confrontandosi,  processi che partivano dal singolo iscritto per coinvolgere poi la sua stessa famiglia, quella piccola comunità che era la sezione di partito fino ad arrivare ai vari livelli istituzionali:  l’assessore, il sindaco, il presidente della Provincia, della Regione, il parlamentare, il componente del governo. Era questa la via percorsa per coinvolgere il popolo nelle responsabilità, in cui quasi sempre erano i più capaci, o comunque riconosciuti tali, ad andare avanti nel perseguimento delle proprie e altrui istanze politiche. Se constatiamo come oggi questa via sia stata chiusa per prendere la “scorciatoia” del rapporto diretto edulcorato tra il leader e le masse, modello che ha scambiato la riflessione con il sensazionalismo degli spot elettorali, possiamo comprendere che se da un lato la partitocrazia chiusa e sterile è da evitare, dall’altro la completa evaporazione dei partiti è stato sicuramente uno dei fattori che ha contribuito alla decadenza socio-politico-economica odierna dell’Italia.

Viviamo insomma in una democrazia senza “demos” ovvero senza popolo, nel più concreto significato greco della parola, cioè “ tutti coloro che partecipano alla vita della polis” (o dello stato, attualizzando).

Proprio in questo senso, don Sturzo, all’epoca della formazione del Partito Popolare Italiano tra il 1918 e il 1919, aveva scelto di denominare il partito come “popolare” e non “del popolo”: sostenere che il proprio partito rappresenti "il popolo" significa escludere tutti coloro che non si riconoscono in quel partito dal popolo, pretendendo di stabilire con parzialità la discriminante tra il “vero popolo” il “non-popolo”. In realtà, il ruolo del partito nel contesto democratico è di strumento di partecipazione proprio per essere “popolare”, cioè non elitario né aristocratico. Solo così il popolo sarà il protagonista legittimo della vita democratica, il soggetto storico valido a riformare la società in cui le personalità passano, per quanto importanti e significative, mentre il metodo resta.

Purtroppo oggi in Italia non si odono le voci del popolo, ma solo il silenzio della distanza.

                                                                                         
                                                                                          V. C.