mercoledì 26 marzo 2014

Visione, sogno, politica

Quante volte udiamo la parola “sogno” nel dibattito politico odierno? Tante. “Sogniamo un’Italia così…”, “dobbiamo credere in questo sogno…”, “il sogno di un’Italia nuova…”, “il sogno dei giovani per l’Italia, per l’Europa…”, “non bisogna distruggere questo grande sogno…”, eccetera, eccetera, eccetera.

Rinsaviti dalla sbornia da logorrea politicante, la domanda sorge spontanea: è giusto, è adeguato utilizzare tale termine nel linguaggio politico? O non è forse errato dal punto di vista sostanziale e, agli estremi, fuorviante? Effettivamente, ciò potrebbe risultare vero. Perché in realtà, il grande assente non solo nell’ambito del linguaggio ma specialmente dal punto di vista fattuale, risulta essere il termine “visione”. Nella politica conta di più il sogno o la visione? Ma soprattutto, non sono tutto sommato la stessa cosa? Di fondo, no. Andiamo con ordine, aggiungendo come terzo “comodo” il termine “idea” e il suo significato, il concetto insito nella sua forma verbale.

“Visione”[1] viene dal latino videre e, di base, vuol dire “vedere”. Tralasciando il significato più trascendente, cioè quello di “scena, immagine straordinaria che si vede o si crede di aver visto in stato di estasi o per cause soprannaturali”, è già molto chiaro il significato propriamente fisiologico: “(la visione) è il processo di percezione degli stimoli luminosi, la capacità di vedere”. Partendo da ciò ed estendendo questo significato all’ambito più generale, la visione è, molto semplicemente, “l’azione, il fatto di vedere una cosa per esaminarla, trarne notizie utili”. Dilatando temporalmente questo processo, questa azione, la visione diviene in sintesi “un modo di vedere, un concetto, un’idea personale – dilato anche io e aggiungo: politica – che si ha in merito a qualcosa”. Il procedimento sembra dunque molto semplice: la luce illumina il bicchiere. Percepisco questo stimolo luminoso e dunque sono capace di vedere quell’oggetto. Ciò mi rende possibile esaminarlo e vedo che è una struttura poco alta e cava dentro. Da ciò avrò il concetto o l’idea che qualsiasi altro oggetto simile sarà quello che definisco “bicchiere”.

“Sogno”[2] proviene invece dal latino sŏmnium, a sua volta derivante da somnus, cioè “sonno”. Già qui vorrei sottolineare la differenza tra videre e somnus: l’essere svegli; tanto è vero che si dice “ho fatto un sogno” e non “ho visto un sogno”. Atteniamoci ai due significati più importanti e generali: “in senso ampio, ogni attività mentale, anche frammentaria, che si svolge durante il sonno; in senso più stretto e più comune, l’attività (mentale) più o meno nitida e dettagliata, con una struttura narrativa più o meno coerente; immaginazione vana, fantastica, di cose irrealizzabili”. Anche in questo caso il procedimento è semplice: durante il sonno sogno un essere alato sputa fuoco con zampe di cavallo e testa di leone che mi insegue e vuole uccidermi; io lo sconfiggo con una balestra con dardi-laser. Per me dormiente, tutto molto realistico.

Forse si sarà già inteso qual è lo spartiacque tra i due termini, ma il concetto di “idea” sarà ancora più utile.

“Idea”[3], dal greco ίδέα, cioè “aspetto, forma, apparenza”, a sua volta derivante dal verbo ίδέĩν, “vedere”. Dunque, idea e visione hanno già qualcosa in comune, cioè il “vedere”. È necessario, però, a questo punto, tralasciare tutto il discorso complessivo sull’idea riguardante l’argomento filosofico e platonico specialmente, poiché essenzialmente meriterebbe una lunga e specifica trattazione a parte, e non sono questi momento, sede e soggetto scrivente per farla. Aggiungo soltanto che l’idea platonica è molto simile alla definizione di idea come “attività della mente rivolta ad immaginare una possibile realtà (in contrapposizione alla realtà stessa)”. E sottolineo “(in contrapposizione alla realtà stessa)”. Tornando a noi, nel significato più ampio e generico, un’idea è “ogni singolo contenuto del pensiero, e, più in particolare, la rappresentazione di un oggetto alla mente, la nozione che la mente si forma e riceve di una cosa reale o immaginaria”. Esempi: l’idea di fuoco – cioè fiamma, calore, luce -, o l’idea di bene e male – più variabili soggettivamente -. Detto ciò, si apre una biforcazione: un’idea può essere “il prodotto dell’attività del pensiero, quindi un concetto che sta alla base, che è ispiratore, spunto per un’opera dell’ingegno o dell’arte, e soprattutto (per quello che ci interessa) la parte sostanziale, il contenuto di una dottrina da tradurre in realtà”. Dall’altro lato, l’idea può essere sempre un “prodotto della mente, ma dell’immaginazione, della fantasia, una credenza o speranza illusoria, cosa, in genere, non rispondente a realtà o verità”.

In sintesi, un’idea può essere “un modo di vedere e giudicare le cose, un’opinione, una intenzione, uno scopo”. Ma è importantissimo, fondamentale, sapere se essa ha come matrice di base una visione o un sogno. In modo particolarissimo nell’ambito della politica. Se l’architettura di un palazzo, una scultura, possono essere più o meno influenzate da una visione reale o da un sogno, ciò è molto meno vero per una “architettura” politica. Perché? Perché essa riguarda e coinvolge pesantemente la vita reale delle persone, di molte persone, e tutto ciò che ne consegue.

Nell’alveo politico è dunque necessario possedere un’idea. Ancor più necessario, a mio avviso, è possedere un’idea legata ad una visione politica e non ad un sogno politico. La visione, come suddetto, vuol dire “percepire gli stimoli che provengono dal reale”, e dunque “avere la capacità di vedere la realtà”. Da questa “capacità di vedere” discende la capacità di giudizio, di scelta. La visione precede l’idea di questa scelta, ciò che è propriamente “l’aspetto, la forma, l’apparenza” di questa “capacità di vedere”. L’idea derivante dalla “capacità di vedere”, dalla visione del reale, nella politica, è molto più veritiera e fondata rispetto all’idea derivante da un sogno di per sé molto più fallace e meno coerente.

Se la visione è “vedere” (videre) e l’idea è pure “vedere (ίδέĩν) e il sogno è “sonno” (somnus), se le parole hanno ancora un significato, è allora forse meglio fidarsi di chi vede e non di chi sogna, assegnando il sognare al suo giusto posto, che non è probabilmente il luogo politico.

Perché la differenza è sempre, in fondo, quella originaria: l’essere “svegli” o no.  


                                                                                             V. C.

[1] Voce “Visione”, Vocabolario online dell’Enciclopedia Treccani

[2] Voce “Sogno”, Vocabolario online dell’Enciclopedia Treccani
[3] Voce “Idea”, Vocabolario online dell’Enciclopedia Treccani

sabato 15 marzo 2014

Irreversibile

È sempre stato problematico, sia nella storia quanto nella vita di tutti i giorni, utilizzare il pesante aggettivo “irreversibile”. Questo perché, come generalmente risaputo, poche sono le cose irreversibili nel complesso delle vicende umane, le quali, in quanto tali, sono caratterizzate dalla stessa mutabilità dei soggetti che le vivono. Probabilmente, l’ultima espressione rimasta impressa ai più in cui si è manifestato l’aggettivo “irreversibile” è stata quella pronunciata dal governatore della Banca Centrale Europea Mario Draghi il 21 luglio 2012 e ribadita il 16 dicembre 2013: “l’Euro è un processo irreversibile”. Frase impegnativa, in quanto, come già anticipato, il parametro dell’irreversibilità è arduo da utilizzare già per le semplici vicende umane quotidiane, figuriamoci per grandi e complessi processi sociali, politici, economici.

In realtà, questa non è una novità. Basta infatti volgersi al più recente passato novecentesco per scovare almeno due esempi di piena fiducia nella “irreversibilità” degli eventi. La rivoluzione fascista, e in seguito quella nazista, erano destinate a cambiare radicalmente l’uomo attraverso un processo irreversibile di progressione verso “l’uomo nuovo”: non a caso, il III Reich era da considerarsi “millenario”, un qualcosa di definitivo, di, appunto, irreversibile; ancor di più e ancor prima, la rivoluzione socialista sarebbe dovuta diventare rivoluzione universale, destinata a coinvolgere tutti i paesi nel cammino verso il certo - e irreversibile – orizzonte comune: la presa del potere da parte del proletariato e la formazione della nuova società socialista. Entrambe le dottrine politiche, analizzate dalla storiografia tanto nelle loro differenze quanto nelle loro somiglianze – che non sono poche -, sono segnate da un indirizzo basato su un determinismo storico di fondo: le cose andranno così perche devono andare così e non possono non andare così.

Ma che c’entra questo discorso con l’esternazione di Draghi? Qualcosa c’entra, e per tentare di spiegarlo sarà comodo utilizzare il principale e più duraturo dei determinismi storici recenti: quello marxista-leninista. Gli eventi umani, per Marx, Lenin e per chi poi seguirà le loro orme, non possono che evolvere in una direzione: la presa di coscienza del proletariato della propria forza e il rivolgimento dello status quo borghese della società attraverso l’imposizione della nuova società socialista.

Al procedimento leninista di imposizione violenta della “dittatura del proletariato”, si manifesta in Italia, ad opera di Antonio Gramsci, il concetto di “egemonia”. A questo punto è utile citare lo storico Pietro Scoppola: “se la dittatura è imposizione, l’egemonia è un fatto spontaneo che nasce da una supremazia. All’imposizione rivoluzionaria si sostituisce così un processo fondato sulla forza spontanea di un’idea valida, sulla praticabilità del consenso[1]”. La domanda che, giustamente, lo storico si pone è: “il concetto di egemonia è sufficiente a conciliare la concezione marxista-leninista con i valori della tradizione liberaldemocratica? Nella visione di Gramsci l’egemonia è funzionale a un processo di trasformazione irreversibile. Il passaggio dalla società capitalistica a quella socialista non è un processo reversibile per volontà dei cittadini, ma è legato a un determinismo storico[2]”.

La conclusione, dunque, non può che essere una: “La riflessione gramsciana sull’egemonia non è sufficiente a creare una saldatura fra la concezione marxista-leninista e quella liberaldemocratica fondata essenzialmente sul principio della libera scelta e quindi della reversibilità delle decisioni. La democrazia esiste laddove un governo può essere sconfessato, messo in minoranza, cacciato. È questo il punto di arrivo di tutto il processo di sviluppo del liberalismo[3]”. A questa, qualche pagina più avanti, si aggiunge una conclusione di carattere più generale: “ … siamo spesso obbligati a riconoscere degli stati di necessità, ma gli spazi di libertà degli uomini (…) non sono né totali, né inesistenti. Tutte le filosofie della storia che si muovono su posizioni radicali non corrispondono alla realtà. Gli spazi di libertà umana individuale e collettiva, sono limitati ma esistono. (…) nella storia umana esistono limiti oggettivi alla libertà d’iniziativa e di scelta, condizionamenti che creano situazioni di necessità. (…) riconoscere che esistono stati di necessità non significa negare che ci siano dei costi[4]”.

Tornando, ora, alla frase pronunciata da Draghi, essa c’entra e interessa proprio perché sintomatica di un modo di pensare ed agire molto simile a quello che si è sopra descritto grazie alle parole di Scoppola. Un procedere cioè indirizzato, guidato, fissato da una filosofia della storia radicale, da un lampante determinismo storico.

Negli ultimi anni la realtà effettiva ha evidenziato in tutta la sua crudezza le svariate problematiche connesse all’adozione di un’unione monetaria tra paesi considerevolmente diversi. Numerosi ed autorevoli critici, vecchi e nuovi, (tra i quali si annoverano sette premi Nobel) spiegano l’importanza di prendere coscienza degli errori, di poter tornare sui propri passi e di poter cambiare le scelte, riscuotendo sostanziosi consensi nelle opinioni pubbliche nazionali sempre più desiderose di informazioni affidabili che riescano a spiegare con cognizione di causa le ragioni profonde di questa inspiegabile – e quasi esclusivamente europea – depressione infinita. Ciò accade, ma non conta.

Il percorso disegnato è, infatti, chiaro: l’Euro è irreversibile poiché è l’unico elemento che da sostanza alla parola “Europa”. Non importa che la parola sia la sintesi verbale secolare di un’entità geografica, sociale, religiosa, culturale, politica. Non importa che ben 10 stati su 28 dell’Unione Europea non facciano parte dell’unione monetaria. Non importa che un potere che tradizionalmente definiva il nucleo della sovranità e dell’indipendenza statuale moderna – come il governo della moneta – sia stato trasferito (erroneamente? Ideologicamente? Incautamente?) ad un ente formalmente comunitario ma che, de facto, è tarato e piegato sugli interessi di una sola nazione estera. Tutto ciò non importa, e come tale non è degno né di attenzione né di ascolto.

L’avvenire di un’Europa unita - ma dipende anche come ci si unisce, perché ci si unisce e se è necessario unirsi - passa necessariamente e irreversibilmente dall’Euro – il che, in termini edilizi, nonché della scienza politica, equivale a dire che si costruisce una casa dal tetto e non dalle fondamenta -. Là fuori c’è la Cina, cosa pensano di fare gli staterelli europei - come se qualcuno negasse la possibilità di ulteriori forme di alleanza, cooperazione ecc…, ma soprattutto, già, come fanno gli altri 203 stati del mondo che non sono la Cina? - ? Ed è qui che entra in gioco il concetto di “egemonia” come “praticabilità del consenso”: la supremazia, la forza spontanea dell’idea valida va e deve andare oltre la realtà e riscuotere consenso. Si spiega così il concetto ripetuto da Draghi e da tutti coloro che - e nelle classi dirigenti come nei media sono tanti - condividono deterministicamente l’idea superiore. Si potrebbe utilizzare, in questo caso, un’espressione che autodesignava alle porte della I guerra mondiale tutti coloro che nutrivano altissime quanto illusorie aspettative ideali verso il significato della guerra: comunità di destino. Ecco, la comunità di destino per raggiungere questo destino - non definito tra l’altro - è pronta a passare sopra ogni intoppo fattuale e ad includere tutti, volenti o nolenti, in questa comunità pellegrina.

Ma tanto ormai, si dirà, ciò che è fatto è fatto. È evidente che seguendo questo pensiero si va in primis contro il principio fondamentale della concezione liberaldemocratica a noi proprio, cioè quello suddetto della libera scelta e quindi della reversibilità delle decisioni; in secondo luogo, in base a tale ragionamento, allora nel passato avremmo dovuto lasciare tutto come si era definito e non tentare di cambiare il corso degli eventi: quindi il nazismo in Germania, il fascismo in Italia, la colonizzazione ecc…

Ricapitolando: “Tutte le filosofie della storia che si muovono su posizioni radicali non corrispondono alla realtà” e tendono a riempire tutti “gli spazi di libertà umana individuale e collettiva”, che “sono limitati ma esistono”. Ergo sono pericolose e vanno maneggiate con cura. Ergo bisogna sognare, sì, ma ogni tanto svegliarsi.

Ricorda qualcosa tutto ciò?

“I fatti sono testardi” usava dire Lenin…
                                                                                          
                                                                                                            V. C.





[1] Scoppola P., Lezioni sul novecento, Laterza, Bari, 2010, p.75
[2] Scoppola P., Lezioni sul novecento, Laterza, Bari, 2010, p.75
[3] Scoppola P., Lezioni sul novecento, Laterza, Bari, 2010, p.75
[4] Scoppola P., Lezioni sul novecento, Laterza, Bari, 2010, pp. 97, 98